Elly Schlein alla guida del Pd: un’identità da ricostruire
Elly Schlein da un paio di giorni ha ufficialmente assunto la guida del Pd, dopo aver vinto a sorpresa le primarie contro il ben più quotato presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini. Un esito inaspettato dovuto al voto dei militanti democratici che hanno rovesciato il responso di dirigenti ed iscritti e che si può leggere in due modi, a seconda se si voglia essere ottimisti o pessimisti sulle sorti del Pd.
La lettura ottimista fa leva sulla mobilitazione di oltre un milione di persone che, in tempi di conclamata disaffezione elettorale, rappresenta un grande successo e mostra la vitalità di un partito che, al di là dei suoi annosi problemi, è forse la sola autentica formazione politica esistente oggi in Italia. Uno spazio cioè dove si discute nelle sezioni e dove, soprattutto, la leadership è realmente contendibile. Canoni dai quali sono ben distanti le altre forze politiche dominate, un po’ più un po’ meno, da strutture piramidali in stile “uomo solo al comando”. Almeno in questo, plauso dunque al Pd.
Al tempo stesso può anche farsi strada un’interpretazione pessimistica: quella di un un partito nel quale dirigenti ed iscritti vengono clamorosamente sconfessati dai simpatizzanti esterni. Lecito, a questo punto, chiedersi persino quale sia l’utilità di un’organizzazione partitica, con tanto di tesseramento e procedure interne, se poi a decidere la leadership, ovvero il più importante aspetto di qualsiasi realtà associativa, è poi qualcuno che viene da fuori.
Il fatto è che le primarie hanno evidenziato in modo plateale l’enorme sfasamento che esiste tra il partito (dirigenti ed iscritti) e i suoi elettori. La base elettorale del Pd è decisamente più spostata a sinistra di chi agisce entro il partito e mai come adesso questa divergenza è emersa in piena luce.
Si tratta, in verità, di una vecchia storia. Capitava anche nei tradizionali partiti della Prima repubblica che gli elettori – di sinistra, di centro o di destra – fossero, per così dire, più caratterizzati ideologicamente delle rispettive classi dirigenti. E i leader erano quindi spesso impegnati a temperare le istanze provenienti dal basso: compito del resto naturale per qualsiasi dirigente politico che si rispetti, chiamato per l’appunto a dirigere la propria base di riferimento verso approdi più concreti e realistici. Quei leader avevano ben chiaro in quale direzione muoversi. Cosa che invece non accade nell’odierno Pd che, dopo quindici anni di esistenza, non sembra ancora aver deciso cosa voglia essere realmente.
Eppure non dovrebbe essere difficile saperlo. Le radici dei democratici sono quelle del riformismo cattolico e socialcomunista e se si vuol tenere fede a queste identità è chiaro che, per prima cosa, occorre leggere le vicende della nostra società con lo sguardo degli strati subalterni e non con gli occhi di chi ne occupa i piani più alti. A costoro ci pensino Forza Italia e similari.
Il Pd deve essere invece quello che porta le classi lavoratrici al Governo del Paese, come voleva il Pci, e che punta su un centro che guarda a sinistra per includere le masse popolari nello Stato, come pensava la Dc. Da questo incontro nascono i democratici e a cascata si sviluppa quasi naturalmente un progetto politico inclusivo i cui cardini sono i diritti sul lavoro, il salario minimo, la difesa della sanità e della scuola pubblica, la progressività del sistema fiscale, la tutela dell’ambiente. Un programma che lotti contro le iniquità e le disuguaglianze ovunque si annidino, perché queste sono il principale freno ad uno sviluppo davvero sostenibile, sia economicamente sia socialmente. Questa deve essere la bussola, questa la direzione. Al resto ci penseranno gli elettori che, si può star certi, sapranno premiare certe scelte.
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