Arnaldo Forlani, la politica come paziente mediazione
Con Arnaldo Forlani, scomparso nei giorni scorsi a 97 anni, se ne va l’ultimo esponente di quella leadership democristiana che ha calcato la scena pubblica dagli anni Cinquanta sino ai primi Novanta. Nato a Pesaro, nelle Marche, nel 1925; dopo una breve parentesi calcistica nelle fila della squadra della sua città natale, approdò alla vita politica divenendo, in pochi anni uno dei capi dello scudo crociato.
Un leader, in verità, piuttosto atipico. Estraneo quasi fisiologicamente alle complesse strategie di Aldo Moro, così come lontano caratterialmente dal dinamismo, troppo spesso dirompente, di Amintore Fanfani. Non fu neppure un inossidabile simbolo del potere – che pure frequentò non poco – come Giulio Andreotti e neanche incline alle teorizzazioni della politica che tanto appassionavano il suo quasi coetaneo Ciriaco De Mita. Il fatto che era un uomo concreto e pragmatico, un paziente mediatore più che un volitivo realizzatore. Una politica vissuta come capacità di trovare un punto di intesa con gli avversari, pur rimanendo fedeli alla propria cultura di riferimento. Appartenne sempre alle correnti moderate del partito, attestandosi su una linea centrista volta a rassicurare quei ceti sociali – tra minuta borghesia, generone parastatale e coltivatori diretti – di cui riteneva che la Dc dovesse essere garante. Senza alcun cedimento a destra o improvvide sbandate a sinistra.
Lunga e prestigiosa la sua carriera pubblica. Più volte ministro: alla Difesa con Moro, agli Esteri con Andreotti, vice presidente del Consiglio con Bettino Craxi. A palazzo Chigi visse una breve parentesi, a cavallo tra l’80 e l’81, tirando fuori dai cassetti gli elenchi della P2 e dando quindi le dimissioni per far posto al repubblicano Giovanni Spadolini. Per ben due volte fu eletto alla segreteria della Dc. La prima nel 1969, quando si stava profilando la crisi del centro-sinistra; la seconda, venti anni dopo, nel 1989, sotto le insegne del cosiddetto Caf, il patto stretto con Craxi ed Andreotti volto ad una precisa divisione del potere tra Dc e Psi. Uno schema in cui si prevedeva, dopo le elezioni politiche del 1992, il ritorno di Craxi a palazzo Chigi e l’ascesa sua o di Andreotti al Quirinale, scaduto il settennato di Francesco Cossiga.
E il Colle fu perso davvero per poco. Gli vennero meno una manciata di voti. Mancarono, si disse, – ma sono supposizioni poiché il voto è segreto – i consensi degli andreottiani che disarcionando il segretario del partito pensavano di dare spazio al loro campione. Fu in realtà l’ultimo atto di una stagione che stava volgendo al tramonto, in quella drammatica primavera che poche settimane dopo avrebbe visto la strage di Capaci. Poi venne il terremoto di Tangentopoli.
Tutti i partiti e i loro leader, di quella che di lì a poco sarebbe stata battezzata Prima repubblica, ne furono travolti, finendo sotto inchiesta. Ritroviamo così Forlani – che frattanto si era dimesso dalla segreteria Dc – in un’aula di tribunale nel processo Enimont. Attonito più che turbato. Quasi incredulo di dover spiegare ad Antonio Di Pietro che di finanziamenti illeciti non sapeva nulla. Lui si occupava di politica, mica di transito di denari, appannaggio, questo, dell’apparato organizzativo. In ogni modo, nessun arricchimento personale, tutto andava al partito in un sistema ben oliato che durava da decenni, mentre Mosca foraggiava il Pci. Un sistema che, per l’appunto, crollò appena dopo la fine del comunismo come se d’improvviso tutta la messa in scena fosse divenuta priva di senso.
Poco dopo Forlani lasciò definitivamente la politica. Del resto era anche finita l’epoca – in cui sguazzava a meraviglia – delle “verifiche”, delle “convergenze” e dei “caminetti notturni”: riti forse desueti, e a volte un po’ stucchevoli, ma non certo peggio dello pseudo decisionismo della Seconda repubblica. Si rifugiò così in una sorta di esilio volontario dal quale niente lo distolse: rare le interviste, mai una polemica. Uno stile da signore d’altri tempi che pare fantascienza a confronto con la maleducazione oggi imperante in una politica urlata e rabbiosa. Tanto piena di volgarità ed improperi quanto vuota di progetti e contenuti.
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