Diritto e famiglia, un rapporto in evoluzione
Si è molto dibattuto negli ultimi giorni sul progetto dell’amministrazione comunale milanese – peraltro dopo averne ampiamente discusso in campagna elettorale – di modificare il regolamento del Fondo anticrisi del Comune per includere nelle politiche di sostegno chiunque sia registrato nello stato di famiglia, e cioè “l’insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozioni, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti”. Poiché temi simili sono stati al centro di riflessioni in varie occasioni e in molteplici forme negli ultimi anni, in Italia e altrove, vale la pena forse di soffermarsi sul fondamento delle critiche.
In primo luogo, la decisione della giunta milanese – e altre analoghe di varie amministrazioni locali e centrali – è attaccata con argomentazioni giuridiche. Si critica da più parti l’aiuto alle persone legate da vincoli affettivi senza che esse abbiano ricevuto un riconoscimento formale – oltre la registrazione nell’atto di famiglia – da parte dell’ente pubblico. Tale progetto sarebbe volto ad aiutare le coppie di fatto, eterosessuali e omosessuali, persone che non possono o non vogliono rendere vincolanti i propri legami affettivi e perciò sarebbe giuridicamente illegittimo. Ad ogni modo può invece apparire meritorio, e in ultima analisi più cristiano, non escludere dall’aiuto in questione un qualsiasi gruppo di persone legate da vincolo affettivo che, in questo tempo di crisi, decida di vivere insieme (una madre e una figlia; un vedovo e un suo amico; una coppia di giovani), anche se esso non è “famiglia” nel senso che la Costituzione riconosce e che la Chiesa – legittimamente – propugna.
Perché mai un matrimonio di comodo dovrebbe vedersi riconosciuto uno status superiore rispetto a un’unione affettiva di due individui, se ad esempio per motivi filosofici questi non intendono sposarsi in chiesa o in comune? La decisione dell’amministrazione milanese a questo riguardo è davvero neutra, nel senso che lascia alla coscienza di ciascun individuo la decisione se il suo vincolo sia “affettivo” e se esso debba essere dichiarato all’autorità comunale ai fini dello stato di famiglia.
Va detta una cosa. La decisione della giunta milanese va senza dubbio oltre il dettato costituzionale, che prevede che lo Stato agevoli “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia [basata sul matrimonio] e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”. Con ragionamento costituzionale (e logico) assai azzardato, spesso si considera che qualsiasi politica volta a riconoscere i medesimi diritti alla famiglia oltre che ad altri gruppi finirebbe per violare lo spirito e la lettera della Costituzione. Questo ovviamente ha poco senso: lo Stato e le sue articolazioni, nel rispetto del principio di sussidiarietà, sono ovviamente liberi di supportare gruppi, entità e individui, specie se tale scelta è stata ampiamente presentata in campagna elettorale ed è stata accettata dalla maggioranza degli elettori. Giuridicamente, non vi è nulla di eccepibile – semmai potrebbe forse esservi un profilo di incostituzionalita’ se, nell’operare tale scelta la famiglia fosse discriminata rispetto ad altre formazioni sociali, ma questo non e’ il caso presente.
Si deve aggiungere che è anche necessario leggere gli articoli della Costituzione in materia di famiglia (come tutti) in un’ottica evolutiva. La famiglia che i costituenti – cattolici e laici – avevano in mente non è quella di oggi: era una famiglia gerarchica, patriarcale, dove ad esempio il marito era il capo famiglia, era giustificato il delitto d’onore, non era previsto il divorzio. Era una famiglia in un certo senso agli antipodi da quella di oggi, tanto è vero che dopo la Costituzione ci vollero decenni per poter convincere il Parlamento (e molti cattolici) a modificare il diritto di famiglia. Se si dovesse seguire il ragionamento che molti propugnano, dovremmo ritenere che solo la famiglia del tipo previsto dal legislatore costituente nel 1948 dovrebbe oggi godere delle garanzie e dei diritti previsti dalla nostra Costituzione, perché è a quella che la Costituzione si riferisce. Solo le famiglie dove la moglie non ha (legalmente) voce in merito alla scelta della dimora coniugale o dove nessuno dei due coniugi ha un passato matrimonio alle spalle, dovrebbe poter godere degli aiuti dello Stato? Ovviamente no: ciò sarebbe assurdo perché la concezione di famiglia è cambiata radicalmente negli ultimi decenni e il diritto non può non tenerne conto. Allo stesso modo, il diritto non può non tenere pragmaticamente conto dell’evoluzione del concetto di famiglia nella società italiana in altri ambiti: abdicherebbe la propria vocazione di normazione generale e astratta se non lo facesse.
Altro discorso è quello dell’opportunità politica di tale scelta, discorso comunque ben diverso dalla legittimità giuridica, che pure spesso si intende mettere in dubbio. Innanzitutto, giova ripetere che la maggioranza dei milanesi ha in questo caso consapevolmente votato per un programma di amministrazione cittadina che prevedeva tale scelta politica. Se invece la questione è quella dell’esiguità degli aiuti economici, e del modo migliore di spartirli fra chi ne ha davvero bisogno, qui semmai il punto è che tipo di stato sociale stiamo costruendo e quali e quante risorse dobbiamo (possiamo) destinarvi. Non è davvero il caso di fomentare una “lotta fra poveri”. Alcune famiglie saranno penalizzate, perché parte delle risorse andranno ad altri ed esse riceveranno dunque meno aiuti. A questo riguardo, comunque, la maggioranza dei milanesi (fra cui non poche famiglie in difficoltà) non ha ritenuto di considerare tale politica come elemento sufficientemente “grave” per votare Moratti, che certo non era divenuta famosa grazie agli aiuti concessi alle famiglie bisognose durante il suo mandato.
Ma anche se si dovesse pensare che questa decisione abbia un fondamento culturale in qualche modo nemico della “morale cristiana”, il ragionamento sembra comunque superficiale. Molti infatti sostengono che il progetto dell’amministrazione milanese (e gli altri simili) sono negativi perché si deve invece dare priorità alla famiglia fondata sul matrimonio.
Questo è certamente condivisibile, ma il punto è un altro: deve essere lo Stato, o il Comune, a farsi carico della priorità della famiglia? Davvero la Chiesa vuole lasciare allo Stato laico, che ad esempio riconosce il divorzio, una funzione importante nella difesa della concezione cristiana del matrimonio? È chiaro che i cristiani italiani (e non solo) da decenni hanno registrato una dicotomia fra matrimonio (e dunque famiglia) cristiano/a e matrimonio (e dunque famiglia) secondo lo Stato. Ciò è inevitabile in uno Stato laico e dove vivono persone di tutti i credi e le persuasioni. In quanto persone che cercano di vivere la propria fede cristiana nel piccolo della loro vita, i cristiani non dovrebbero ritenere che lo Stato laico (grande conquista più volte erroneamente attaccata dalla Chiesa in passato) debba avere alcun ruolo di difensore della loro fede e delle loro convinzioni. La mia fede è – deve essere – più forte dello Stato e delle magagne cui le scelte politiche lo piegano. I cristiani devono esplicitamente riconoscere che essi non possono ritenere il loro matrimonio religioso uguale al matrimonio civile: essi danno al matrimonio cattolico un significato che va al di là della certificazione del pubblico ufficiale del comune. Anche se rispetto pienamente la scelta diversa, il mio matrimonio cattolico è un sacramento, non è soggetto a divorzio, è una promessa di fronte a Dio e alla comunità. Ovviamente, non vedo nulla di questo nel matrimonio (esclusivamente) civile di fronte allo Stato italiano e dunque non ho niente in contrario a che anche altri tipi di unione siano riconosciuti. Per essere chiari: lo Stato già riconosce qualcosa che va contro la mia concezione di matrimonio cristiano. Ciò, a mio parere, non ha per nulla fatto diminuire il senso del significato della famiglia cristiana, anzi ha portato in evidenza chi – quando non esisteva un matrimonio esclusivamente civile – si nascondeva dietro una patina di falsa religiosità. Non vi è ragione di credere che ulteriori riconoscimenti di unioni basate su vincoli affettivi differenti avranno conseguenze diverse.
Di più. Le famiglie, specie quelle cristiane, dovrebbero sentirsi profondamente offese dal ragionamento che, se altri tipi di unioni fossero riconosciuti, ciò minerebbe le basi stesse della loro concezione di famiglia. Tutti invece dovrebbe riconoscere e accettare che vi sono scelte (e soprattutto necessità) di vita differenti e che queste non urtano in alcun modo le altre formazioni sociali esistenti. Il concetto di famiglia è mutato profondamente nei secoli e nelle culture, e ovviamente non c’è un modello unico di famiglia, neppure nelle società che trovano le proprie radici culturali nel cristianesimo. Questo fatto incontestabile non dovrebbe far altro che rinforzare nei cristiani il senso di famiglia che è loro proprio, come a ciascuno è dato di comprenderlo e viverlo secondo la propria coscienza in base agli insegnamenti della Chiesa.
Vedere come minaccia a questa concezione l’esistenza stessa (e il riconoscimento) di famiglie e altre unioni diverse presuppone un’intrinseca debolezza della forza vitale della famiglia, invece che affermarne la priorità e la forza. Poiché invece l’idea stessa di famiglia cristiana è ancora viva e vegeta, essa non dovrebbe temere che lo Stato le equipari altre diverse concezioni di famiglia e unione. Se davvero è una delle concezioni di famiglia ispirata da Dio, troverà la forza per mostrare a tutti – cristiani e non – il proprio valore.
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