Partito Democratico, cattolici e riformisti
Si è sviluppato in queste settimane un dibattito assai interessante sulla presenza delle diverse culture riformiste all’interno del Partito Democratico, ovvero di quanto tali culture siano ancora capaci di esprimere una visione sul presente ed il futuro del nostro Paese e di contribuire alla definizione di una progettualità comune che sia la base della proposta politica del PD per l’oggi e per il domani.
In questo senso leggo gli interventi di Garofani e Giacomelli e poi di Fassina sull’ “Unità” come pure l’articolo molto impegnativo dell’economista Massimo D’Antoni su “Leftwing”: mi sembra infatti che tutti gli interlocutori si pongano un problema che attende ancora la sua soluzione, ovvero quanto la dimensione della progettualità politica sia condizionata dalla logica degli apparati , i quali a loro volta rimandano ad un’impostazione politico-organizzativa assai più organica ad una delle tradizioni prevalenti nel Partito, che per convenzione si usa chiamare socialdemocratica ma che in realtà rimanda, se non altro per cultura organizzativa, al PCI.
Negare che il problema esista è insincero, affermare che ci si debba limitare a prenderne atto è impossibile, a meno di non voler ridurre la vita interna del Partito (con prevedibili conseguenze sulla sua immagine esterna) ad un’inesausta contrattazione in cui le differenziazioni del passato, ridotte alla loro enunciazione e alla permanenza di strutture organizzative ormai consunte, servono essenzialmente alla spartizione degli incarichi nel generale deserto delle idee.
Siccome evidentemente questa non è una condizione che possa soddisfare chi ha coltivato l’idea del PD come ricapitolazione delle esperienze del progressismo riformista politico e sociale del nostro Paese, è chiaro che si deve uscire dalla logica della lamentazione e guardare in faccia i problemi per come si presentano, soprattutto nel momento in cui si prospettano iniziative esterne al PD da parte di soggetti che, come scrivono giustamente Garofani e Giacomelli, avrebbero le carte pienamente in regola per essere pienamente impegnati nella costruzione e nel consolidamento del Partito.
Anche perché alla fine il problema della costruzione del Partito e della sua proposta politica è qualcosa di più dell’affidamento fideistico a qualche leader dalla testa un po’ vuota ma assai telegenica (modello Blair o Renzi, verrebbe da dire …) ed invece richiama alla fatica quotidiana di un’azione di radicamento e di ricerca che porti a risultati non predeterminati. Sapendo che le suggestioni sono molte, ed anche sorprendenti: come valutare ad esempio l’ampia intervista al Cardinale Arcivescovo di Milano Angelo Scola pubblicata su “Repubblica” del 15 novembre? Il suo richiamo ad una “democrazia sostanziale delle libertà realizzate, non solo conclamate”? Quali libertà, verrebbe da dire, quali diritti che rendono tali libertà effettive se non quelli che vengono proclamati dalla nostra Carta costituzionale: il lavoro, la casa, l’assistenza pubblica, la salute? E che cosa ci dice il successore di Ambrogio e di Carlo (ma anche di Carlo Maria …) quando invita a superare “la concezione del mercato come fosse un fatto di natura, mentre il mercato è un fatto di cultura, destinato a evolvere, a cambiare” mentre ora è elevato al rango di “una nuova ideologia”?
Di fronte a questi problemi, che poi sono i problemi reali cui oggi la politica deve far fronte, mi pare realistica l’esortazione di D’Antoni a concentrare l’attenzione sul piano dell’elaborazione culturale e soprattutto del rinnovamento del linguaggio, uscendo dai fideismi e dalle contrapposizioni di comodo come pure dalle mitologie, compresa quella delle primarie che rimangono uno strumento importante ma, appunto, sono solo uno strumento e non l’ ubi consistam fondamentale del Partito.
Si può anche convenire con Fassina sul fatto che il problema di oggi dei democratici e dei progressisti è quello di rappresentare la persona che lavora: si può anche aggiungere che le scelte di fondo del PD dovrebbero basarsi sul duplice paradigma centralità del lavoro/ centralità del lavoratore- lavoratrice, definendo il primo lo spazio della contesa sociale (giacché la dialettica capitale/lavoro non è un retaggio del passato ma rimane la forma attuale della logica interna all’economia e alla politica) ed il secondo l’esigenza dell’umanizzazione di un modello economico che fa regolarmente strame della persona umana concreta, della sua dignità e dei suoi bisogni.
Se così è, allora lo spazio per un lavoro comune è grande, e non solo su questo piano (come ha dimostrato l’attività del gruppo di lavoro coordinato da Rosy Bindi sul tema delle unioni di fatto, attaccato dagli zelatori di un estremismo decontestualizzato e difeso con buoni argomenti dal laicissimo Luigi Manconi ), e il seducente richiamo delle derive identitarie può essere accantonato nella prospettiva incommensurabilmente più interessante della costruzione di un percorso credibile per il nostro Paese, al netto delle inevitabili contraddizioni.
Certo, occorre essere consapevoli del fatto che la presenza del PD è vista con fastidio da molti nella società italiana, e non solo a destra. Lo dimostra l’incredibile canea succeduta alle dichiarazioni di Bersani e di Vendola nel dibattito televisivo sulla presenza di Giovanni XXIII e del card. Martini nel loro personale pantheon, che peraltro è stata rilevata nella sua ricchezza di fondo da un filosofo di vaglia come Carlo Sini. Si è andati dalla lunga lamentela di Barbara Spinelli su “Repubblica” , che in sostanza deplorava il fatto che nessuno avesse pensato di mettere papà suo in quel tale pantheon, al sarcasmo corrivo sparso sul “Fatto” da Andrea Scanzi , uno che ogni volta che scrive o apre bocca dimostra di non meritare la stima che gli professava il grande Edmondo Berselli, fino alla critica puntuta ed unilaterale di Peppino Caldarola su “Pubblico”: non uno che si sia accorto, come appunto ha scritto Sini, che il riferimento a quelle due grandi figure ecclesiastiche significa “ l’esigenza di riportare la politica sui binari di una visione universalmente terrena ed umana della vita sociale, di riconsegnarla ad un ideale che ne giustifichi l’impegno, le fatiche e i pericoli reali, quando quegli ideali si traducano in azioni concrete”.
Né si può scordare l’esistenza fra i cattolici presenti nel PD di taluni che si dicono liberali ed al massimo sono liberisti, e dei quali si è fatto portavoce Giorgio Armillei su “Europa”, che nello stroncare il dibattito fra i dirigenti del PD ha nuovamente spacciato come straordinarie novità i miti di Blair e di Schroder senza fare un’analisi equilibrata delle loro somiglianze e dissomiglianze e soprattutto senza leggerne con chiarezza gli esiti, dimostrando di essere lui sì preda di ideologie novecentesche, perché l’ideologia neoliberista è novecentesca quanto il marxismo ed il fascismo, e non basta la “spiritosa invenzione” di un ruinismo dal volto umano o di poliarchie inesistenti a dare una diversa coloritura al “pensiero unico” dominante di cui Armillei e quelli come lui sono i più o meno inconsci aedi.
Forse l’unico modo di costruire qualcosa di nuovo lo suggeriva – se non è troppo “clericale”- Ambrogio di Milano, con un’espressione assai amata da Giuseppe Lazzati, la quale esortava a «nova semper quaerere et parta custodire». Con traduzione libera, potremmo dire così: occorre guardare fiduciosamente a quanto si muove nel tempo, applicandosi nell’esercizio del discernimento, per accogliere tutto ciò che, in termini di idee, esigenze, sensibilità, appare come positivo e perciò capace di arricchire il patrimonio fondamentale delle tradizioni culturali e politiche, che a loro volta sono un patrimonio da conservare e trasmettere per quanto sono in grado di contribuire alla liberazione e al benessere dell’uomo nella sua integrità.
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