La porta stretta
La costituzione dei due gruppi di lavoro da parte del Presidente della Repubblica non è una forzatura del dettato costituzionale (per quanto sia veramente spiacevole l’omissione della presenza femminile, e non solo per questioni di pari opportunità): forse lo è della prassi invalsa negli anni, ma è evidente che di fronte ad una situazione totalmente inedita sono possibili anche soluzioni inedite. Quando mai si era visto, ad esempio, che un gruppo politico pretendesse di mandare in diretta televisiva le consultazioni con il Presidente del Consiglio incaricato?
Gli interrogativi sulle scelte di Giorgio Napolitano sono semmai altri, e vanno dalla già citata questione di genere al fatto che fra i prescelti per l’attività di questi gruppi non vi siano personalità riconducibili al Movimento Cinque stelle, che pure è il secondo partito politico del Paese, e, più in generale, all’incertezza dell’efficacia di un tale processo in un contesto come quello italiano in cui le Commissioni bicamerali, i comitati ristretti e i gruppi di lavoro hanno sempre ed esattamente prodotto lo stesso risultato, ossia nulla.
Non è cinismo, è questione di constatare con la necessaria freddezza quello che è il dato di fatto del momento, cioè che quella che sarebbe probabilmente la via maestra per uscire questa situazione di stallo, un grande accordo politico fra le maggiori forze politiche, è allo stato di cose preclusa. Lo è da un lato perché il M5S ha detto e ripetuto in ogni circostanza, spesso con toni offensivi e scurrili, di essere indisponibile all’accordo con partiti politici che giudica tutti sullo stesso piano e che vorrebbe vedere scendere nella fossa tutti insieme, e dall’altro perché il PDL, che invece disponibile sarebbe, chiede in cambio ciò che non può essere accettato, ossia un mercimonio istituzionale sulla figura del prossimo Presidente della Repubblica, e un salvacondotto giudiziario per Silvio Berlusconi, le due cose che più gli stanno a cuore a prescindere dalle aspettative e dagli interessi dei milioni di concittadini che ancora votano per quel partito.
In più,l’esperienza del Governo Monti è stata maestra, perché si è visto con chiarezza che passato lo choc per l’estromissione da Palazzo Chigi del suo signore e padrone il PDL ha agito nella “strana maggioranza” come elemento di freno, ad esempio ritardando e per certi versi affossando la riforma degli Enti locali e l’accorpamento delle Province, oppure trasformando la legge contro la corruzione in uno sgradevole pasticcio che da un lato frena l’attività della Pubblica Amministrazione e dall’altro impedisce una vera lotta a corruttori e concessori: coazione a ripetere di un partito che , per naturale vocazione, ogni volta che c’è da scegliere fra guardie e ladri si schiera senza esitazione con i secondi.
Forse, negli ultimi giorni del suo settennato, Napolitano ha in qualche modo esplicitato quella che è stata ad un tempo la forza ed il limite del suo modo di intendere la prima magistratura della Repubblica: l’idea cioè del Presidente come tutore della democrazia, di fronte alle intemperanze delle parti politiche (di una in particolare, per la verità) , ed insieme però in qualche modo costretto in un quadro di riferimento che appare viepiù datato e non rispondente a quello che è il dato reale dei rapporti politici e sociali esistenti. La stessa insistenza sull’Europa, se è importante come riferimento generale, diventa per certi versi controproducente nel momento in cui l’Europa non si identifica con una volontà politica positiva ma con le chiusure autistiche di un sistema che prescinde dalle persone reali e dai loro problemi.
In questo senso è stato forse un errore insistere ad ogni costo sulla nascita del Governo Monti nel novembre 2011 quando il fallimento evidente del berlusconismo imponeva semmai un’immediata verifica elettorale, come pure – e in particolare ne ha pagato le spese il PD – l’insistere da parte di un esecutivo guidato da un personaggio che alla lunga si è rivelato assai meno brillante e capace di quanto si pensasse e circondato da Ministri che erano persino più sprovveduti (con le dovute eccezioni), su scelte politiche che non erano solo impopolari , come talvolta è necessario fare, ma alla fine decisamente antipopolari, vessatorie e sostanzialmente inique perché non rispettose del principio fondamentale dell’uguaglianza, che è ad oggi il problema principale in un Paese in cui si sta allargando una frattura sociale mai vista.
Probabilmente questo Parlamento ha davanti a sé un orizzonte politico assai ristretto, che in primo luogo contempla l’elezione del nuovo Capo dello Stato, il quale non dovrà solo essere come i suoi immediati predecessori un custode attento della dignità ed integrità delle istituzioni, ma dovrà anche collocarsi in quadro più dinamico in cui la tutela delle istituzioni implica l’attenzione all’evolversi della dialettica sociale.
Poi, se sarà possibile, modificare la legge elettorale, nell’unico modo che sembra praticabile, ossia una semplice legge in due articoli, che con il primo sopprima la legge 270 del 2005, l’orrido “porcellum”, e con il secondo richiami in vita ad ogni effetto le leggi 276 e 277 del 1993, quelle elaborate da Sergio Mattarella , che al momento sembrano l’unica strada di mediazione possibile fra rappresentanza e governabilità (e lì si sarebbe arrivati anche per via referendaria se la Corte costituzionale, probabilmente sollecitata da altissimo loco, non avesse disposto diversamente lo scorso anno).
Infine, inevitabilmente, la parola tornerà agli elettori.
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