Protezionismo: una bestemmia? Per i lavoratori, e per la ripresa economica, mica tanto

I principali Paesi europei, e l’Unione Europea, sono, al momento, ancora governati da una classe politica che ha cercato la sua legittimazione più nell’obbedienza e nella fedeltà al progetto globalista che nella rappresentanza delle istanze popolari. La vecchia Europa sembra aver tirato il freno a mano, per non andare incontro al cambiamento in atto nel mondo anglosassone, alla nuova agenda politica dettata dal voto delle classi medie impoverite.

Del modello sociale europeo, dell’agenda di Lisbona, dei sogni e delle promesse che l’Europa suscitava, è rimasto poco. Bruxelles e Berlino sono diventati i nuovi santuari del liberismo più selvaggio, di una insensata ed autolesionista politica austeritaria che lacera le economie e le società europee. Peggio. Dopo la Brexit e soprattutto dopo le presidenziali americane di novembre, l’Ue e il governo tedesco sono rimasti gli ultimi sostenitori dell’agenda di quell’establishment americano sconfitto dal suo stesso popolo, fautore di una visione del mondo aggressiva e unilateralista che costituisce un pericolo alla pace e alla stabilità mondiale.

Al contrario, a Londra e Washington si assiste ad una netta messa in discussione del “pensiero unico”, dell’agenda dettata dalle centrali transnazionali del monetarismo e della globalizzazione, quelle che hanno organizzato uno sfruttamento del lavoro così sistematico da generare un inaudito aumento delle disuguaglianze e l’impoverimento dei ceti lavoratori.

In Italia il voto referendario, che ha ampiamente bocciato il governo Renzi, ha prodotto un governo fotocopia. Nel Regno Unito il voto referendario di giugno, che ha bocciato la politica di Cameron, ha prodotto un terremoto politico. Il governo che gli è succeduto, ancorché dello stesso colore politico, guidato dalla conservatrice Theresa May, ha semplicemente chiuso un’epoca, ha messo la parola fine a decenni di thatcherismo e di blairismo, al quale ancora si ispira la sinistra europea, non a caso in crisi di credibilità prima che di consensi.

Difesa delle tutele sociali dei lavoratori, protezionismo economico, riduzione delle disuguaglianze, intervento dello stato in economia per correggere le storture del mercato sono i pilastri per una “fairer economy”, ossia un’economia più equa, che la May ha posto in cima agli obiettivi del proprio governo, e che suona come un de profundis per il neoliberismo.

Negli Stati Uniti si sta per insediare una amministrazione che ha annunciato di voler porre fine alle delocalizzazioni selvagge, che impoveriscono i lavoratori e concentrano indebiti guadagni, con grosse elusioni fiscali, nelle mani di pochi, a prezzo di far scomparire molti posti di lavoro, e di deprimere la domanda interna. L’imposizione di dazi alle aziende che fanno dumping sociale, avrebbe dovuto essere da subito la prima misura (seppur da sola non sufficiente) con cui contrastare gli eccessi della globalizzazione. Almeno avrebbero dovuto farlo le forze di sinistra, che invece hanno smesso di rappresentare gli interessi dei lavoratori e si sono accodate al pensiero unico. Parimenti l’Ue e i governi, specie se guidati da forze di sinistra, come quello italiano, avrebbero dovuto essere in prima linea nel rigettare gli accordi commerciali transnazionali, come il Ttip. Invece, per ironia della storia, tocca fare l’una e l’altra cosa ad un miliardario newyorkese, come Trump che è stato legittimato non tanto dal Partito Repubblicano, che in buona parte gli era ostile, ma dal voto di quella terza forza costituita dalla classe media in crisi, e da parte degli elettori di Sanders (il candidato progressista estromesso con i brogli dalla nomination del Partito democratico).

Per le forze riformatrici, ed in particolare per i cattolici democratici, si pone quindi un’altra grande occasione per spezzare la subalternità culturale all’ideologia globalista. Bisogna saper andare controcorrente ai giornali che strillano sul pericolo del protezionismo e che sono a servizio degli interessi dei poteri transnazionali che hanno tratto un vantaggio smisurato dallo sfruttamento globale del lavoro. E bisogna farsi carico non solo delle giuste istanze della classe media, ma anche della responsabilità di trovare una via d’uscita dalla crisi e di far ripartire l’economia. Infatti, la finanziarizzazione dell’economia e la globalizzazione forzata cui abbiamo assistito in questi anni, non si sono preoccupate neanche di non segare il ramo su cui erano sedute. Quel ramo è la domanda interna. A forza di orientare tutte le economie all’esportazione, riducendo salari e diritti, si è assestato un durissimo colpo alla capacità di spesa delle famiglie, come anche al commercio mondiale i cui maggiori indici sono in calo. Quindi ben venga il protezionismo, se è avulso da intenti nazionalistici e se mira a tutelare il lavoro, a ridare fiato ai consumi, a impedire lo sprofondamento nella povertà di gran parte della popolazione. La globalizzazione è finita, ed a decretarne la fine sono stati i Paesi da cui è partita: il Regno Unito e gli Stati Uniti. Ma a ben vedere, il ritorno all’interventismo e ad un ponderato protezionismo, in una parola, particolarmente cara al cattolicesimo sociale, all’economia sociale di mercato, finirà per essere la via con cui nel volgere di pochi anni il commercio mondiale tornerà a fiorire. La vocazione all’universalità va incoraggiata, il globalismo, vale a dire l’imposizione, con la legge del più forte in campo commerciale e con la guerra, di un unico centro di controllo mondiale va contrastato con il massimo impegno. Un impegno che forse fino ad oggi non è stato sufficiente ma che si potrà recuperare rompendo le catene della subalternità.

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