Andrea Chénier apre la stagione del Teatro alla Scala

Grande direzione di Riccardo Chailly per il ritorno dell’opera di Umberto Giordano.

Tutti vincitori e nessun vinto. Al Teatro alla Scala si è lavorato a lungo e seriamente perché il trionfo del 7 dicembre inaugurale, ottenuto e meritato, portasse l’edizione di Andrea Chénier di Umberto Giordano ad assumere diversi significati, alcuni di questi annunciati ma non scontati secondo i pronostici non certo incoraggianti della vigilia. Prima di tutto c’è da soffermarsi sulla scelta di una direzione artistica, di Alexander Pereira, che in più occasioni ha dimostrato di credere nel repertorio operistico del verismo italiano, e di un direttore musicale, come Riccardo Chailly, che aveva dato in passato dimostrazione di come questa partitura fosse nelle sue corde (al suo attivo c’è una incisione discografica con super nomi come Luciano Pavarotti e Montserrat Caballé, e alla Scala aveva già diretto Andrea Chénier, l’ultimo in ordine di apparizione sul palcoscenico scaligero, nel 1982 e 1985, con José Carreras nel ruolo del titolo). Insomma, motivazioni culturalmente stimolanti, oltre che artisticamente fondate.

Poi c’è tutto il resto: la scelta di un protagonista che non sfigurasse dinanzi ad una tradizione che ha sempre visto affidare il ruolo di Chénier a grandissimi tenori; la richiesta di eseguire l’opera a flusso musicale continuo, addirittura senza applausi al termine delle romanze più celebri dell’opera, che in sostanza è come chiedere al pubblico dei melomani (e dei loggionisti) di mettersi in silenzio e ben attenti all’ascolto, rinunciando a dar pagelle e a portare sugli altari o nella polvere la prestazione di un cantante (ed in questo caso, vista la scelta coraggiosa del protagonista, c’era da temere il peggio). Contro ogni previsione funesta, tutto è filato liscio e questa inaugurazione scaligera, così come le  affollatissime recite che sono seguite (noi riferiamo della quarta), hanno dimostrato come nell’opera non di debba mai dare nulla per scontato, lasciando parlare a vuoto le cassandre che profetizzano sventure su spettacoli d’opera prima ancora di averli sentiti e visti. Infondo, il bello del mondo del melodramma sta anche in questo: nello scatenare passioni quasi calcistiche.

Sul piano visivo, ad onor del vero, non si è rischiato molto. Lo spettacolo di Mario Martone appare didascalico e illustrativo. Certo, in tempi in cui i registi massacrano le drammaturgie delle opere a loro uso e consumo ideologico, un allestimento così rispettoso del libretto, così equilibrato nel raccontare la vicenda sentimentale dei protagonisti calata nel preciso contesto storico della Rivoluzione Francese alla quale si rifà il libretto di Luigi Illica, appare confortante e nel segno di una “tradizione” visiva pulita e chiara. Anche l’impianto scenico di Margherita Palli, con la pedana girevole che permette rapidi cambi di scena e il fluire narrativo rapido ed ininterrotto voluto dalla stessa direzione di Chailly, i costumi, di fedele taglio storico, di Ursula Patzak, e le luci, morbide e cariche di suggestioni pittoriche, di Pasquale Mari, seppure assai belli, ricordano come Martone in altri suoi spettacoli scaligeri – Luisa Miller e Oberto, conte di San Bonifacio di Verdi o, più recentemente, ne La cena delle beffe di Giordano – avesse percorso vie registiche meno scontate e più stimolanti.

Uno spettacolo che si potrebbe giudicare già vecchio sul nascere, ma che offre garanzie agli amanti del bel vedere. D’altronde i “gusti”, anche in campo registico, sono i più svariati ed a questo spettacolo non si può certo negare una visione storicamente fondata sul piano figurativo, seppur registicamente poco originale. Non è poca cosa se si considera – e ci sia concessa una breve digressione – che questo Chénier scaligero è una vera gioia per gli occhi rispetto al pretenzioso allestimento de La damnation de Faust di Berlioz a firma Damiano Michieletto, visto a Roma per l’inaugurazione della stagione dell’Opera e trasmesso da Rai5, con i soliti frusti luoghi comuni dell’attuale teatro di regia che secondo alcuni servono a far “pensare”; un minestrone indigesto in cui si è messo un po’ di tutto: il bullismo che genera esclusione fino ad indurre al suicidio, la famiglia come rifugio, i cellulari, le videocamere steadycam che riprendono immagini proiettate su uno schermo, il malato terminale, la manipolazione delle coscienze ad opera dei media e non solo…Tutto secondo il personale, e se si vuole anche attanagliante copione “filmico” del regista, coerente oltre che teatralissimo, perché lo spettacolo ben si comprende nel suo arbitrario disegno di “ricostruzione” drammaturgica, magistralmente realizzato, ma solo in rapporto al proprio visionario sentire, decontestualizzato da Berlioz. Alla fine si spera che prima o poi finisca il “telebanismo” snobistico di chi crede di avere la verità in tasca sul come si debba far regia d’opera, credendo tutti gli altri incapaci di comprenderla e, quindi, confinandoli al rango di ottusi se “osano” dissentire (come è avvenuto) su uno spettacolo che ha già fatto discutere fin troppo se lo si relaziona al suo reale valore. Per di più la compagnia di canto è di modesto rendimento, ma questo è tutto un altro discorso.

Tornando all’Andrea Chénier, il meglio viene dalla parte musicale, affidata alla magnifica bacchetta di Riccardo Chailly, che si è già detto ama questa partitura per diverse frequentazioni passate, ma soprattutto ne inquadra alla perfezione l’intimo sentire, la capacità di raccontare gli eventi in musica senza cadere in facili eccessi, dipingendo passioni, quadri d’ambiente, che siano essi profumati d’Ancien Régime (come nel quadro arcadico del primo atto) o dei toni tribunizi che accompagnano l’impeto rivoluzionario, con attenzione microscopica al dettaglio, al bel suono drammaturgicamente motivato, denso ed insieme luminoso. Ovviamente lo asseconda un’Orchestra scaligera e un Coro, stupendamente istruito da Bruno Casoni, allo zenit della forma, ma in Chailly si ammira anche la capacità di trasformare il flusso sinfonico a getto continuo della partitura in pittura teatrale efficacissima, di montaggio sonoro cinematografico.

Se ne avvantaggiano anche le voci, soprattutto quella del cantante più atteso al varco del severo giudizio loggionistico e per il quale c’erano i maggiori timori della vigilia: lo Chénier del quarantenne tenore azero Yusif Eyvazov, vincitore di una doppia sfida. La prima è stata quella di essersi imposto non solo più per essere, nella vita privata come sulla scena, il consorte della diva, il soprano russo Anna Netrebko, al suo fianco in questo Andrea Chénier come Maddalena, ma anche per essersi preparato all’appuntamento scaligero con serietà e coraggio, affidandosi alle cure del maestro Chailly e costruendo vocalmente il ruolo nota dopo nota. Il paragone con i grandi interpreti passati lo vede per forza di cose perdente solo per un motivo, perché la voce è timbricamente ingrata e “strana”, percorsa da un vibrato adenoideo che con lo studio e la tecnica riesce a controllare il più possibile. La vera sorpresa è che il suo Chénier guarda, in alcuni momenti, alla lezione di alcuni grandi (si pensa a Beniamino Gigli e ad Aureliano Pertile) nel tentativo di sfumare la linea, di fraseggiare con cura, di rendere la dizione chiara e pulita e di guadagnarsi anche meriti nell’ascesa sicura quanto basta al registro acuto. Nessuna volontà di strafare, nessun effetto che renda il personaggio sopra le righe nell’Improvviso del primo atto e nelle altre pagine dove emerge l’eloquenza dell’uomo che si difende dinanzi al tribunale rivoluzionario. È sempre il poeta che canta, sia che debba esprimere amore e passione, o che debba rivolgersi alla folla dei suoi detrattori appellandosi alla sua condizione di poeta (“Passa la vita mia come una bianca vela”, così intona nell’arringa del terzo atto, “Sì, fui soldato”, e lo fa con accenti commossi e sinceri, da vero poeta). Ed ecco che il temibilissimo “Come un bel dì di maggio”, uno dei tanti interventi solistici affidati al protagonista, e forse il più complesso da risolvere, lo trova tutto sommato vincente. Una prestazione sulla quale nessuno, dico nessuno, avrebbe scommesso, ma che alla fine ha convinto tutti. Non sarà certo lo Chénier che ci farà dimenticare i fantasmi tenorili di un passato che più non ritorna, ma il suo canto, così attento e sincero, è da premiare per la classe artistica superiore, raggiunta con impegno e studio.

Discorso diverso per la Maddalena di Anna Netrebko, che sfoggia un colore di voce sempre più inscurito nel timbro ma così prezioso, intenso, perfettamente sostenuto sul fiato e magistrale nel legato da lasciare a bocca aperta. Nelle frivolezze del primo atto non è tanto a proprio agio, ma quando la temperatura del dramma cresce e lo donna lascia il bel mondo aristocratico per divenire donna che deve affrontare le difficoltà della vita e difendere il proprio amato arrivando a sacrificare se stessa, viene fuori il temperamento vocale e la magnificenza di un colore di voce che la conferma fra i soprani più in vista del panorama internazionale e rende la sua “La mamma morta” forse perfettibile sul versante espressivo eppure vocalmente trascinante. Luca Salsi, Gérard, in tempi in cui i baritoni adatti a questo repertorio scarseggiano assai, si impone per musicalità e lo slancio commisurato ad una voce che si è via via imposta in ambito verdiano e che qui cerca di offrire del suo meglio. Non sarà un Gérard vocalmente ideale, ma non c’è una frase che manchi di ragioni espressivamente motivate dal contesto drammatico, sempre nel segno di uno stile esecutivo sorvegliato anche se vocalmente poco gagliardo e qua e là un po’ velato in acuto.

I ruoli di contorno sono tutti all’altezza di uno spettacolo inaugurale scaligero, con una menzione particolare per Annalisa Stroppa, La mulatta Bersi, e Carlo Bosi, Un “Incredibile”, fino a tutti gli altri: Mariana Pentcheva, La Contessa di Coigny, Judit Kutasi, Madelon, Gabriela Sagona, Roucher, Costantino Finucci, Pietro Fléville, Gianluca Breda, Fouquier Tinville, Francesco Verna, Il sanculotto Mathieu, Manuel Pierattelli, L’Abate, Romano Dal Zovo, Schmidt, Riccardo Fassi, Il Maestro di Casa/Dumas/Presidente del Trubunale di Salute Pubblica.

Infine qualche dato di giusto e giustificabile orgoglio scaligero. La prima del 7 dicembre, trasmessa da Rai1 è stata vista da 2.077.000 spettatori con 11,1% di share e ben 11 milioni di contatti. Operazione benemerita, che va ben oltre gli esiti di questo applauditissimo Andrea Chénier.

Credit photo: Brescia & Amisano – Teatro alla Scala.

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