America Alone

In campagna elettorale, lo slogan dell’attuale presidente degli Stati Uniti Donald Trump era “America First”, l’America per prima. Una rivendicazione di priorità per gli interessi nazionali, evidentemente minati, a suo giudizio, dalla precedente Amministrazione Obama, accusata di eccessivo multilateralismo per aver firmato accordi quali quello sul clima di Parigi. Una posizione incomprensibile, dal momento che gli Stati Uniti, da sempre, tutelano i propri interessi con ogni mezzo, compresa l’opzione militare, salvo poi cadere in clamorosi errori di valutazione (come addestrare Osama Bin Laden in funzione anti-russa in Afghanistan e poi ritrovarselo come nemico giurato, tanto per fare un esempio rilevante). Ma evidentemente per Trump non era ancora abbastanza, o meglio per lui non era la cosa giusta da fare: in qualità di candidato alla presidenza, più volte aveva criticato l’interventismo americano nel mondo, facendo capire che secondo lui sarebbe stato meglio pensare di più agli affari interni, anziché spendere soldi in missioni all’estero. Perché il problema, secondo Trump, non era di natura etica (spesso gli Usa sono intervenuti a sproposito, come con il sostegno alle dittature sudamericane o, più recentemente, con la guerra in Iraq), ma semplicemente economico: meglio risparmiare soldi sulle questioni internazionali e conservarli per progetti interni, magari per abbassare le tasse alla classe media (poco) e ai ricchi (molto).

Una visione provinciale in un mondo globalizzato, come se la più grande potenza del pianeta potesse farsi i fatti propri restando isolata, salvo stipulare accordi bilaterali con singole nazioni, facendo pesare maggiormente il proprio strapotere economico-finanziario. Una scelta assolutamente demagogica, quindi intrinsecamente perdente, come tutte le demagogie, che agiscono su convinzioni preconcette anziché confrontarsi con la realtà. L’America è tale perché agisce da protagonista a livello mondiale, nel bene e nel male: astenersi dal proprio ruolo internazionale vuol dire rinunciare alla sua stessa essenza, quella di grande potenza. Specialmente se le scelte internazionali residue sono sbagliate, come successo quasi costantemente all’Amministrazione Trump.

Del resto, fa parte della natura del personaggio, conflittuale per definizione. Molti, erroneamente, pensavano che tale conflittualità fosse una strategia da campagna elettorale, e che il Trump presidente sarebbe stato diverso dal Trump candidato. In realtà, non c’erano motivi per pensarlo: le criticità che oggi si manifestano erano già visibili chiaramente nelle dichiarazioni pre-elettorali, oggi confermate da scelte illogiche, avventate e irresponsabili, nonché controproducenti, perché stanno di fatto isolando l’America.

Il primo macigno è stato il disconoscimento dell’Accordo sul clima di Parigi, bieco omaggio alla lobby delle energie fossili, un autogol non solo dal punto di vista diplomatico e ambientale, ma anche economico, perché assesta un duro colpo al settore delle energie rinnovabili, che stava crescendo in maniera estremamente promettente. A sfilarsi da quel cruciale accordo sul clima gli Usa sono stati praticamente gli unici (con Siria e Nicaragua….), mentre la Cina non ha perso l’occasione per proporsi come guida del cambiamento energetico ormai inderogabile, togliendo anche in questo campo il primato agli Stati Uniti e aumentando la propria leadership a livello globale.

A seguire sono arrivate svariate dichiarazioni improvvide, gaffes diplomatiche e atteggiamenti fra lo spaccone e l’intimidatorio, che hanno provocato l’irrigidimento e l’allontanamento di molti partners tradizionali, dal Messico (con la storia del muro di confine) alle nazioni europee, anche quelle facenti parte della Nato, il patto transatlantico di mutua difesa.

Ma lo strappo definitivo è arrivato con la decisione, improvvida, unilaterale e arbitraria, di riconoscere Gerusalemme quale capitale dello stato di Israele, senza porre alcuna condizione in parallelo a questa concessione, tantomeno mettendosi alla guida di un nuovo tentativo di trattativa fra Israele stesso e la nazione palestinese, tuttora in cerca di un riconoscimento territoriale che le garantisca la possibilità di costituirsi in Stato sovrano. Una pericolosa fuga in avanti, che non tiene conto del diritto internazionale, di decine di risoluzioni dell’Onu, delle legittime rivendicazioni palestinesi e del parere di alleati cruciali, in particolare proprio quelli dello scacchiere mediorientale, a partire dalla Turchia (avamposto Nato nella zona) fino all’Egitto, passando per la Giordania. La disapprovazione a livello mondiale è stata immediata e corale, la stessa Unione Europea, ancora una volta, ha parlato con voce unica e concorde, come raramente le accade. In effetti, pare che Trump abbia lo stesso effetto della Brexit: riuscire a compattare l’UE, in genere divisa e litigiosa su (quasi) tutto.

Questa volta però è stata l’intera comunità internazionale a far sentire la propria voce in sede Onu: nonostante le minacce nemmeno troppo velate da parte statunitense di tagliare i contributi sia alle Nazioni Unite, sia a eventuali alleati che avessero votato a sfavore degli Usa, ben 128 Paesi (tra cui l’Italia) hanno approvato il documento che stigmatizza la decisione di Washington, a fronte di 35 astenuti e solo 9 contrari, compreso Israele. Un risultato che replica quello registrato precedentemente nel Consiglio di Sicurezza Onu, con 14 membri su 15 (cioè tutti tranne gli Usa) contrari alla decisione americana.

Ancora una volta, l’arroganza e l’atteggiamento spavaldamente provocatorio di Trump hanno provocato l’allargamento della frattura fra gli Usa e il resto del mondo, facendo capire che il suo “America first”, l’America per prima, sta diventando “America alone”, l’America da sola. Proseguendo di questo passo, alla fine del suo mandato -il cui rinnovo appare attualmente assai poco probabile- non ci sarebbe da stupirsi se ci ritrovassimo nei fatti una “America second”, declassata al secondo posto nella leadership mondiale da una Cina in rapida ascesa, non più solo a livello economico e produttivo, ma anche sotto l’aspetto dell’innovazione tecnologica (il numero dei laureati in ingegneria del gigante asiatico è quattro volte superiore a quello degli Usa) e soprattutto sotto il profilo politico-diplomatico, dopo i disastri internazionali causati dalla presuntuosa dabbenaggine di Trump.

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