Decreto crescita – edilizia
Lo scorso 4 aprile il Consiglio dei Ministri ha approvato il “Decreto crescita”, contenente una serie di misure per stimolare la ripresa dell’economia. Al suo interno troviamo alcune norme relative all’edilizia, che continua evidentemente a essere considerata un settore trainante, nonostante che i milioni di tonnellate di cemento riversati negli ultimi decenni su centinaia di chilometri quadrati di territorio non abbiano portato grandi giovamenti all’economia italica. Tuttavia, pare che a prescindere da quale sia il Governo in carica, a comandare sia sempre quel “partito del cemento” che da anni indica nelle infrastrutture e nelle “grandi opere” la chiave per garantire lo sviluppo del Paese. È grazie a questa impostazione che l’Italia detiene il record mondiale di opere incompiute e/o inutili, mentre nel frattempo sono cresciuti sia il debito pubblico, sia la disoccupazione. Ma tant’è, nonostante questa evidenza, quando si parla di sviluppo rispunta immancabilmente il cemento. Vediamo dunque quali sono le novità relative all’edilizia inserite nel recente decreto.
Cominciamo dalle buone notizie. Dal decreto è stata tolta la norma del “silenzio-assenso”, che prevedeva la possibilità di intervenire su immobili di interesse culturale vincolati ai sensi del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio, salvo specifica pronuncia contraria delle Soprintendenze competenti in tempi relativamente brevi, specie tenendo conto delle carenze di organico con cui sono costrette a fare i conti queste ultime. Questa ipotesi, che indeboliva fortemente la tutela di un patrimonio edilizio storico-artistico senza uguali nel mondo a favore di interventi potenzialmente speculativi, era stata fortemente osteggiata da ambienti della cultura e dell’associazionismo, riuscendo a ottenerne la cancellazione nella versione approvata nei giorni scorsi.
Rimane naturalmente il problema delle carenze di organico negli Enti preposti alla tutela e in effetti il ministro Bonisoli ha dichiarato che “rimane l’importanza di assicurare che i cittadini abbiano risposte in tempi brevi e prevedibili. Per questo lavoriamo per assumere le persone che mancano alle Soprintendenze che non riescono a lavorare le pratiche”. Resta da verificare l’effettiva messa in atto di questo provvedimento.
Piuttosto negativa invece la possibilità di cessione di immobili di proprietà degli enti locali, che vanno così a sommarsi a quelli statali già indirizzati alla dismissione. Ulteriori pezzi di patrimonio pubblico che rischiano di essere alienati per fare cassa, una pratica che già in passato ha dimostrato di essere alquanto fallimentare, esattamente come nel caso delle privatizzazioni di aziende pubbliche. Quello che si è ottenuto finora è di cedere importanti porzioni di beni comuni in cambio di pochi spiccioli che, lungi dall’andare a ridurre il debito pubblico, sono evaporati perlopiù nella spesa corrente, portando beneficio solo ai soggetti che sono riusciti a mettere le mani su un patrimonio che, non dimentichiamolo, apparteneva a tutti noi.
Infine, qualche preoccupazione tecnica emerge dal comma 2 dell’articolo 26, col titolo “Semplificazioni in materia di edilizia privata”, a prima vista un fattore positivo. Senonché il comma in questione prevede una riduzione dell’ambito di applicazione della regolamentazione in materia di distanza tra fabbricati, in particolare tra una parete con finestre e il muro antistante, che andrebbe a valere solo più sulle cosiddette “zone di espansione”.
In pratica, nelle aree già urbanizzate si potrebbero costruire nuovi fabbricati a distanza estremamente ravvicinata agli edifici preesistenti, col rischio di trovarsi una parete di cemento a pochi metri dalla propria finestra. Un dettaglio tecnico, appunto, ma è noto che il diavolo si nasconde nei dettagli. Non dovendo più rispettare obblighi di distanza, le potenzialità edificatorie all’interno del territorio dei Comuni si amplificano. Un fattore che potrebbe dare nuovo impulso all’edilizia, ma con l’effetto collaterale di “appiccicare” gli edifici gli uni agli altri, sostituendo la visuale dalla propria finestra con un claustrofobico scorcio di muro, non proprio una bella prospettiva, sia dal punto di vista estetico, sia da quello energetico, con la probabile necessità di dover ricorrere con maggiore frequenza all’illuminazione artificiale. Il che significa “crescita” per i fatturati degli operatori del settore elettrico, ma anche crescita del costo in bolletta, dei consumi e del relativo inquinamento per la produzione di elettricità, specialmente se da fonti fossili. Tutti fattori che andrebbero a impattare sulla salute e la qualità della vita dei cittadini, al solo scopo di implementare le possibilità edificatorie in un Paese dove, va ricordato, da anni la popolazione non cresce, anzi tende a diminuire. A quale scopo dunque emanare una norma per favorire la crescita dell’offerta immobiliare, se la richiesta non è destinata a crescere in parallelo?
La domanda è legittima e pone la necessità di rivedere anche questa parte della normativa edilizia contenuta nel “Decreto crescita”.
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