“Manon Lescaut” in treno verso la dissoluzione
Solo la direzione di Riccardo Chailly convince per il ritorno dell’opera di Puccini alla Scala nella versione originale
Manon Lescaut di Puccini torna alla Scala dopo ben ventuno anni di assenza. L’attesa era molta, i rischi altrettanti, vista la locandina poco soddisfacente degli interpreti. Allora la diresse Riccardo Muti, oggi Riccardo Chailly, attuale direttore musicale del più grande teatro d’opera del mondo. Ed è proprio grazie a lui se possiamo affermare che questa Manon, qualora venga ricordata in futuro, lo sarà solo ed unicamente per la sua direzione d’orchestra, non certo per un cast vocale sbagliato e per uno spettacolo che, nonostante la grandeur scenografica, proprio non coglie nel segno, muovendosi incertamente fra simbolismi forzati e un impianto scenico ad effetto, ma avulso dal contesto drammatico.
Partiamo dalla bacchetta di Chailly, che sappiamo essere un direttore pucciniano di comprovata fede e crede anche nel valore e nella valorizzazione delle fonti originali. Lo aveva fatto con le passate edizioni scaligere di Turandot, La fanciulla del West e Madama Butterfly ed oggi, per Manon Lescaut, recupera appunto la versione originale della partitura per la prima torinese del 1893. Puccini la revisionò portandola ad essere quella che si conosce e si esegue attualmente. Ma Chailly, convinto, e non del tutto a torto, che anche la musica poi scartata dal compositore stesso debba essere conosciuta, ripropone le pagine omesse successivamente alla prima. Le modifiche più evidenti sono al termine del primo atto, col recupero di un concertato; nel secondo, con un intervento ne “L’ora, o Tirsi”, ed infine, nell’ultimo, con una versione più elaborata di “Sola, perduta, abbandonata”.
Ricondurre il valore di questa esecuzione al solo dettato della riscoperta di tali inserti musicali non è però nulla rispetto al lavoro che il maestro svolge in orchestra, assecondato dai meravigliosi complessi scaligeri. Senza sentimentalismi accentuati e a favore di una teatralità asciutta ed essenziale, Chailly elabora una concertazione dalla sonorità dense e sinfoniche. Forse qualche piccolo dubbio ci assale nel primo atto, un po’ sbrigativo, o meglio già pervaso dal quel magma sonoro drammatico che poi investe gli atti successivi, nei quali si respira il senso di tragedia attraverso un accorto dipanarsi di armonie e di impasti timbrici scuri davvero suggestivi. L’Intermezzo, il concertato della deportazione delle prostitute nella scena del porto e il finale dell’opera sono carichi di una tensione interna fortemente drammatica, con sonorità che, avvolte in un mantello cupo e carico di presagi di morte, mettono in rilievo un Puccini che mai si abbandona ai sentimentalismi, alimentandone invece la passionalità fin da subito consapevole di uno sviluppo tragico colmo di dolore sordo, quasi pietrificato dall’assenza di speranza. Non mancano, quando occorrono, fraseggi che valorizzano la cantabilità, ma è chiaro che a Chailly interessi un percorso narrativo sostenuto da una densità di suoni che diviene immediato riflesso di una concezione interpretativa che punta al concreto e che, attraverso la sobrietà, mira diretta alla sostanza di un discorso musicale che fece parlare, quando apparve l’opera, di wagnerismo rivisitato dall’autore in chiave personale e che, in qualche modo, la direzione di Chailly evidenzia.
È chiaro che una simile direzione richiederebbe il supporto di voci ed interpreti adeguati, che alla Scala sono purtroppo mancati. Maria José Siri non ha né il physique du rôle per essere una Manon attendibile, né una voce che si limita a cantare tutto senza lasciare neanche un’ombra di traccia espressiva, senza curare il fraseggio e il canto di conversazione che permettano di cogliere la parabola del personaggio nei suoi contorni caratteriali. Non ci sono l’ingenua freschezza del primo atto e l’annoiata frivolezza del secondo, né il voluttuoso trasporto sensuale per l’appassionato duetto con Des Grieux e la lacerata disperazione del finale. Insomma, non c’è nulla perché la sua Manon possa ritenersi degna di un grande palcoscenico come quello della Scala.
Lo smalto tenorile dei tempi migliori è solo più un ricordo per Marcelo Álvarez, Des Grieux, ed anche se la voce resta bella, sembra aver perso in volume e, soprattutto, non ha più una linea di canto capace di uscire dal procedere continuo per portamenti che lasciano sul campo un senso di fatica e disagio. Inizia piuttosto male nel primo atto, dove la baldanza giovanile del seduttore proprio non c’è, poi pian piano si risolleva nel corso dell’opera, ma è certo che ormai si è dinanzi ad un cantante che, almeno in questa occasione, è parso l’ombra di se stesso.
Nei ruoli di contorno si ammira il davvero ottimo Geronte di Carlo Lepore e il Lescaut pertinente anche se un po’ opaco in acuto di Massimo Cavalletti. Assai bravo Marco Ciaponi, qui alle prese con tre diversi ruoli: Edmondo, Il Maestro di ballo e Un Lampionaio. E poi ancora Emanuele Cordaro, L’Oste, Alessandra Visentin, Un Musico, Daniele Antonangeli, Un Sergente degli arcieri e Gianluca Breda, Un Comandante di marina.
Infine il nuovo allestimento di David Pountney, che con scene di Leslie Travers e costumi di Marie-Jeanne Lecca ambienta l’opera ai tempi di Puccini. Una Belle-Époque che parte dalle strutture in ferro di una stazione ferroviaria, con tanto di locomotiva a vapore e vagoni ferroviari che vanno e vengono. Nel secondo atto i lussuosi saloni della casa di Geronte divengono gli scompartimenti di un treno di lusso, mentre la scena del porto vede un treno merci che conduce le prostitute accostarsi alla gigantesca parete in ferro di una nave. L’ultimo atto si svolge nella stazione d’inizio opera, distrutta, avvolta nelle dune sabbiose di un deserto, con lo stesso orologio che si vedeva nel primo atto, infranto a terra. Fin qui tutto bene, perché lo spettacolo ha anche una sua ragion d’essere per l’effetto grandioso dell’impianto scenico. Poi però, vuoi per l’abuso di simbolismi che vedono l’impiego di tante bambine che fungono da doppi delle psiche di Manon (forse ci si riferisce alla sua innocenza “violata”, che ha subito gli effetti di un mondo che l’ha sfruttata e poi abbondonata a se stessa), vuoi per la sostanziale distrazione che il regista mostra nel lavorare sui personaggi (è raro vedere un duetto d’amore del secondo atto così poco coinvolgente, forse anche per la responsabilità degli interpreti stessi), questo monumentale spettacolo si riduce al trionfo della forma visiva e alla negazione della sostanza registica motivata in rapporto alla drammaturgia. Peccato, perché la direzione di Chailly meritava un contorno più adeguato al valore della sua direzione.
Foto Brescia & Amisano.
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