Il caso serio dei cattolici democratici nel PD
Si è aperto da alcune settimane un dibattito che, dalle pagine cartacee di “Europa” è rimbalzato su riviste web come “Leftwing” e “Libertà eguale”, con interventi di spessore, fra gli altri, di Pierluigi Castagnetti, Claudio Sardo, Stefano Ceccanti e Massimo Faggioli. Oggetto della discussione è, detto in termini estremamente concisi, il disagio dei cattolici democratici che hanno partecipato convintamente alla nascita del Partito Democratico e che, per usare la parole di Castagnetti, avvertono la presenza di una componente di sinistra che “non ha del tutto elaborato” il suo lutto ideologico sostituendo il marxismo con il laicismo, col risultato di “avere ridotto l’appeal del partito verso i ceti popolari”, i quali avrebbero così la sensazione (e forse qualcosa di più della sensazione) “della perdita della rappresentanza dei loro problemi proprio da parte di una forza riformista che non avrebbe mai dovuto perdere i suoi collegamenti con questa Italia apparentemente ‘minore’ “.
I successivi interventi nel dibattito hanno arricchito i punti di vista sulla questione, in particolare riferendosi in termini generali alla cosiddetta anomalia italiana, che in alcuni interventi è stata sia pure implicitamente rimandata, che ha impedito l’alternanza fra forze socialdemocratiche (mai maggioritarie a sinistra) e forze conservatrici (mai dichiaratesi tali a destra), creando tutta una serie di contraddizioni e di singolarità di cui la nascita del PD come forze progressista ma estranea al socialismo europeo sarebbe l’ultima manifestazione (ed è noto che questa è l’interpretazione di alcune importanti personalità dell’attuale maggioranza congressuale del PD che sono arrivate alla costituzione del nuovo partito di contraggenio e con molti retropensieri).
Occorre innanzitutto sbarazzare il campo da molte interpretazioni di comodo, come quella fornita da Francesco Cundari su “Leftwing” che di fatto imputa agli ex popolari raccolti nel gruppo di “Quartafase” un eccesso di condiscendenza con il “laicismo” e l’”azionismo di massa” insiti nella posizione di Veltroni che renderebbe oggi incomprensibile la loro opposizione a chi, come Bersani, è impegnato a recuperare le radici dei riformismi italiani senza inopportuni nuovismi. A parte il fatto che il laicismo di Veltroni pare essere alquanto annacquato, nel senso che in molti durante la fase della sa segreteria gli imputarono semmai un eccesso di prudenza sulle tematiche di tipo etico, come per la dolorosa vicenda di Eluana Englaro, il veleno nella coda della posizione di Cundari sta nell’ipotesi , che egli tatticamente ribalta sugli ex popolari, che alla fine sia la stessa esperienza politica del PD (questo “amalgama mal riuscito” secondo una celeberrima, ed infelice, battuta) a venir messa in discussione, e che alla fine una presenza di soggetti politici di ceppo diverso da quello diessino sia accettabile solo a condizione che si ponga in continuità con la storia e la cultura prevalenti e non pretenda, come invece era l’aspirazione originaria del PD, a costruire qualcosa di nuovo senza dimenticare le radici storiche e senza allo stesso tempo esserne prigionieri.
Perché poi, alla fine, aveva ragione Mounier quando affermava che “non è con l’audacia dei nostri nonni che noi risponderemo alle angosce dei nostri figli”, e una certa tendenza alla giustificazione di una presenza politica in nome di un passato glorioso ha nuociuto nel corso del tempo a coloro che si richiamano al ceppo del popolarismo, come se, anche qui, l’elaborazione del lutto della fine di una presenza predominante nello scenario politico italiano, e la successiva necessità di acconciarsi a vivere nei nuovi scenari, venisse percepita come un insopportabile diktat, favorendo oltretutto il rifluire verso posizioni identitarie ed integristiche esse sì estranee alla storia e alla prassi dei cattolici democratici.
Ciò significa che, pur essendo necessariamente e prevalentemente storia compiuta, la vicenda del popolarismo e del cattolicesimo democratico (due espressioni che qui utilizziamo come sinonimi pur essendo coscienti della loro non immediata sovrapponibilità) può ancora dare contributi sostanziosi alla definizione di un pensiero democratico che sia aderente alla vicenda storica del nostro Paese e che nello stesso tempo sappia confrontarsi ai problemi dell’oggi.
Il contributo principale è di ordine più specificamente politico – istituzionale, e riguarda quella che potremmo definire genericamente la questione dello Stato. La centralità di tale questione nel pensiero politico e giuridico è di tutta evidenza, ma è altrettanto evidente il rilievo che esso assume per il popolarismo, il quale tende ad assumere un proprio profilo specifico rispetto al resto del movimento cattolico nel momento in cui abbandona la polemica nostalgica contro gli “usurpatori” del potere temporale della Chiesa, e si dedica piuttosto a comprendere le imperfezioni del modello statuale vigente, cercando di individuare le soluzioni migliori per modificarlo con metodo democratico. Luigi Sturzo, che del popolarismo fu il teorico principale poiché era stato fra i primi a praticarlo nella realtà locale in cui era inserito, non era avversario dello Stato, ma riteneva che ne andasse mutato il carattere centralistico, ritenendo che si dovesse ripartire dalla funzione del Comune come ente organico “ nella sua funzione collettiva, nel diritto di amministrare i beni comuni, di regolare le quote dei consociati per la soddisfazione dei bisogni collettivo-territoriali di diverso ordine sia morale, (…) sia sociale (…), sia materiale. (…) sia infine completamente, intervenendo in ciò che l’iniziativa privata non può fare o fa male”.
La generazione successiva, passata attraverso le dure prove della dittatura fascista e della guerra, trovò un suo punto di definizione nel cosiddetto Codice di Camaldoli del luglio 1943, nella cui parte più precisamente politico -istituzionale, dovuta a quanto sembra alla penna del maggior filoso del diritto italiano del XX secolo, Giuseppe Capograssi, ed in cui si può leggere che dall’ attività delle forze sociali nascono”realtà di gruppi e di istituzioni sociali nei cui riguardi nasce il duplice problema: a) di assicurare le condizioni generali perché possano svolgersi in piena libertà e secondo le proprie leggi per la realizzazione dei propri fini umani e sociali;b) di creare tra di loro un’ armonia. Per realizzare questi due scopi si dà vita ad un modo di organizzazione di tutte le forze sociali – individui, famiglie, gruppi ed istituzioni – che si chiama lo Stato “. Così, se da un lato si ricorda che lo Stato è preceduto dai corpi sociali e dalle comunità locali, nello stesso tempo la sua specifica realtà viene riconosciuta come elemento costitutivo del nuovo progetto di società da costruire, e non a caso nel Codice si cerca definire anche le modalità per la partecipazione dello Stato alla vita economica e sociale.
E’ in questa scia, e non come una sorta di masso erratico come sorprendentemente piace dipingerlo ad alcuni anche nell’area democratica, che Dossetti espose nel novembre 1951, al III Convegno di studi dei Giuristi cattolici, le sue tesi sulla crisi dello Stato liberale, sulla sua mancanza di finalità proprie che lo rendevano succube dell’economia, sulla sua tendenza alla compressione delle forze sociali e dei loro diritti, con la sola eccezione del diritto di proprietà, sulla sua falsa neutralità fra le parti sociali che si rivelava a vantaggio del più forte, e quindi sulla sua inabilità a produrre una vera partecipazione democratica. L’idea di Dossetti era quella di un “necessario e definito finalismo dello Stato e del suo ordinamento”, non certo nel senso di definire da sé (e riassumere in sé) le proprie finalità come nel caso degli Stati totalitari, quanto nel senso di riconoscere che fine dello Stato è il “provvedimento di tutte le condizioni necessarie al bonum humanum simpliciter” e in questo senso orientare la propria azione. Ne consegue che lo Stato deve riconoscere le formazioni sociali originarie, a partire dalla famiglia, assumendosi il compito di “selezionare la domanda sociale” agendo come soggetto di sintesi dinamica e di riforma del corpo sociale. In sostanza, se la società civile – che preesiste allo Stato – produce una domanda sociale informe, compito dello Stato è quello di riplasmare tale domanda sociale sulla base di quei principi generali che intende tutelare, in particolare a difesa dei soggetti sociali più deboli Da qui, peraltro, la percezione dell’insufficienza delle strutture statuali, ivi comprese quelle definite dalla Costituente di cui Dossetti era stato magna pars, poiché esse non conferivano al finalismo dello Stato un’autentica forza (e infatti Dossetti in quello stesso intervento si dichiarava a favore di un rafforzamento del ruolo dell’Esecutivo e al superamento del bicameralismo perfetto).
Questa linea di pensiero è indubbiamente controcorrente nel clima culturale e politico attuale del nostro Paese, in cui sembra ormai essere superata persino l’ utopia reazionaria dello Stato minimo teorizzata da Robert Nozick, per approdare a quello che potremmo definire uno Slim State, uno Stato deprivato da tutte le sue funzioni che non siano quella della sicurezza nel senso poliziesco del termine.
Un’analisi obiettiva del lungo periodo di dominio politico della destra che ha il volto di Silvio Berlusconi (preceduto da un ancor più lungo politico di seminagione culturale) ci mostra come nel nostro Paese si celebri più che altrove il predominio dell’economia sulla politica con l’ovvio corollario di una politica volta a tutelare precisi interessi di classe (è stato rilevato fra gli altri da autori non sospettabili di simpatie marxiste – leniniste come Rodolfo Brancoli ed il compianto Edmondo Berselli), con interventi di carattere economico e fiscale volti a garantire le fasce sociali più elevate, che peraltro ben si conciliano con lo sbandierato populismo che consente di recuperare anche voti nelle fasce più basse secondo tecniche collaudate dalle destre di tutto il mondo.
La logica del condono, dell’abolizione delle norme sul falso di bilancio, della riforma delle rogatorie, dei vari “lodi Alfano”, serve certo in primo luogo agli interessi del padrone del Popolo della Libertà, ma fatalmente – in virtù dell’ erga omnes – si applica a tutti i cittadini, i quali sono così autorizzati a pensare che se il Capo può sottrarsi ai rigori della legge perchè la legge la riplasma a misura dei suoi interessi, anche loro possono sentirsi assolti rispetto ai piccoli e grandi gravami che incombono sulle loro vicende quotidiane. Salta il senso dello Stato, salta il senso morale, che sempre più viene concepito sugli stessi parametri del diritto penale o civile: non è vietato,per cui non solo è lecito ma anche moralmente corretto.
Soprattutto, si diffonde ad opera dei portavoce più accreditati la percezione profonda di come ogni ostacolo procedurale o addirittura costituzionale alla volontà dell’Eletto dal popolo (che non è tale, ma poco importa) sia un’ intollerabile attentato alla democrazia, mercè un’ interpretazione mutila ed interessata del secondo capoverso dell’art.1 della Costituzione, il quale nella sua interezza ricorda come la democrazia moderna promani sì dalla volontà popolare, ma anche che tale volontà si esprime appunto attraverso forme procedurali che garantiscano, ade esempio, la tutela delle minoranze contro le tentazioni dispotiche delle maggioranze. E’ proprio questa logica proprietaria applicata alle istituzioni, generata fra le altre cose da quella perversione del concetto di libertà su cui insiste da tempo Mauro Magatti, a produrre risultati aberranti come quelli dei centri di potere più o meno occulti che si spartiscono i frutti delle privatizzazioni e delle esternalizzazioni a mano guidata a tutti i livelli, ovvero gli effetti della “shock economy” (per citare Naomi Klein) all’italiana, come dimostrano le disinvolte prassi della Protezione civile e del suo opaco entourage.
In questo senso, ha ragione Faggioli quando afferma che il vero discrimine del cattolicesimo democratico rispetto all’integrismo antimoderno di matrice ciellina e alla deriva sessantottina di cui Nichi Vendola è l’ultimo, forse inconsapevole, erede politico, sta proprio nella consapevolezza della complessità dello Stato , del suo rapporto con l’evoluzione della democrazia, della società civile, dell’economia. E’ un problema che non si risolve (solo) con l’iniziativa politica e nemmeno (solo) con la dottrina giuridica, ma chiede innanzitutto la crescita di testimonianze personali forti ed esemplari, nel senso letterale della parola, cioè che siano di esempio per l’opinione pubblica. E che deve in primo luogo misurarsi con la capacità di ricondurre ad un disegno organico le riforme intervenute nel corso degli ultimi anni, dando senso e significato, ad esempio, ad un discorso più razionale sul cosiddetto federalismo, in tutte le sue accezioni (fiscale, demaniale, municipale…) che rischia di diventare uno strumento di divisione e di approfondimento delle ineguaglianze strutturali del nostro sistema Paese, aggravando i già rilevanti elementi di lacerazione fra le diverse istanze istituzionali che, più che alla “poliarchia” richiamata da alcuni interventi rimandano piuttosto ad una specie di anarchia istituzionale in cui a prevalere è la logica del più forte.
La crisi economica globale, invocando la presenza di poteri estranei alla sfera del mercato, ha implicato che tali poteri, i quali sono essenzialmente quelli degli Stati nazionali ovvero delle entità sovrannazionali cui i singoli Stati delegano una parte più o meno rilevante delle loro funzioni, non abbiano solo la forza illusoria di dettare delle regole che per loro natura non sono comunque mai neutre e che le forze del capitale globalizzato svuotano di significato o scavalcano abbastanza agevolmente, ma siano anche capaci di agire come attori diretti in base ad un progetto, a un’idea di società che non abbia certo le pretese totalizzanti di derivazione hegeliana di un passato non troppo lontano, ma che nello stesso tempo non neghi l’esigenza di una concezione organica della società. Anche perchè, detto incidentalmente, Berlusconi e la destra di cui è insieme capo e ideologo massimo un progetto per l’ Italia ce l’hanno, lo stanno mettendo in pratica da anni e di fatto stanno fortemente riplasmando la società italiana secondo i loro disegni.
Occorre quindi, come scrive Carlo Galli, “rilanciare la normatività della politica e del diritto contro le derive dell’economia e della tecnica”, e per questo, a fronte di idealità infrante e di afasie da cattiva coscienza, i cattolici democratici nel PD hanno ancora molto da dire. Sempre che abbiano voglia di farlo, beninteso.
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