Ruanda, 25 anni dopo


Il  6 aprile 1994 l’aereo su cui viaggiavano il presidente del Ruanda Juvénal Habyarimana e quello del Burundi Cyprien Ntaryamira venne abbattuto da un missile nei pressi dell’aeroporto di Kigali, capitale ruandese. A tutt’oggi, non è chiaro chi fu a lanciare quel missile, ma restano chiarissimi gli effetti di quel gesto. Quello stesso giorno, l’odio contro l’etnia minoritaria tutsi che da mesi veniva fomentato con ogni mezzo dall’etnia rivale hutu esplose in tutta la sua violenza, provocando un massacro destinato ad assumere in breve proporzioni bibliche. In circa 100 giorni, fra aprile e luglio, vennero trucidati barbaramente, in genere a colpi di machete, migliaia di tutsi e hutu moderati. Nessuno è stato in grado di stabilire un numero preciso, ma le stime variano fra ottocentomila e un milione, per la quasi totalità civili inermi.

Numeri da genocidio. Un genocidio che però all’epoca la “comunità internazionale” rifiutò di riconoscere come tale, con scelta cinica e vile. Può sembrare una sottigliezza semantica, ma non lo è. Se questo genocidio fosse stato riconosciuto come tale, sarebbe stato imperativo intervenire per fermarlo. Invece, si preferì applicare il principio di non ingerenza negli affari interni del Paese, lasciando che gli assalitori proseguissero indisturbati la carneficina. Solo la reazione dell’RPF, formazione militare dei tutsi, capovolse le sorti del conflitto, fermando il massacro di civili, ma innescando una diaspora di profughi hutu verso i Paesi confinanti. Fra questi si infiltrarono numerosi membri delle milizie responsabili delle violenze, che riuscirono a varcare i confini spesso senza venire disarmati.

Una grave negligenza, che provocò in seguito l’estensione del conflitto prima al Burundi e poi all’allora Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, Paese tuttora dilaniato da un conflitto strisciante per il controllo delle preziose risorse primarie, fra le quali spicca il coltan, materiale indispensabile per l’elettronica di consumo.

Oggi il Ruanda è un Paese pacificato a forza, nel senso che il regime – perché di regime si tratta – del  presidente Paul Kagame, gia leader dell’RPF e in carica da circa vent’anni, ha eliminato la distinzione fra hutu e tutsi, cristallizzata arbitrariamente durante la colonizzazione belga in base a criteri di censo e caratteristiche somatiche. Ma naturalmente ciò non è di per sé sufficiente a rimarginare le ferite della guerra fratricida che ha devastato il Paese, anche perché molti dei carnefici sono riusciti a sfuggire alla giustizia.

Eppure, qualcosa di buono sembra essere scaturito da questa ennesima tragedia africana. Le innumerevoli uccisioni perpetrate durante il genocidio hanno colpito tutti, ma in misura maggiore gli uomini, lasciando così la componente femminile in sensibile maggioranza. Sebbene devastate dal conflitto, spesso vittime di stupro, odiosa pratica bellica che costringe le vittime a partorire e allevare i figli dei propri aguzzini, queste donne hanno saputo risollevarsi, anche grazie a gruppi di mutuo sostegno, dove all’inizio ci si trovava solo per condividere e piangere il proprio dolore, ma dove successivamente si è trovata la forza per far ripartire le proprie vite spezzate.

Attualmente il Ruanda, grazie alla sua (forzosa) stabilità politica, attrae investimenti e genera sviluppo, ma al di là della crescita economica, è proprio il ruolo centrale delle donne nella società il vero dato positivo da registrare a 25 anni dalla pagina più nera nella storia del Paese. Qui la parità di genere è reale e sostanziale, a livelli impensabili in altri stati africani, ma anche europei. Basti pensare che il Ruanda vanta la percentuale più elevata al mondo di donne in Parlamento, il 61, 3%, ben superiore anche a quelle dei Paesi scandinavi, notoriamente progressisti in questo senso.

Sono le donne la vera forza, la vera speranza di questo Paese spezzato e rimesso insieme a forza. Fragili ma forti, hanno saputo superare le sevizie, gli stupri, lo stigma sociale, il lutto e il dolore, ricominciando una vita dove sembrava impossibile sopravvivere senza impazzire. Hanno ottenuto che gli stupri che molte di loro hanno subito venissero considerati crimini di guerra contro l’umanità e perseguiti da un Tribunale penale internazionale. Hanno contribuito da protagoniste alla ripresa economica e sociale del Paese. Hanno provato a ricucire le ferite di una nazione lacerata e continuano tuttora a farlo, in un percorso necessario e fondamentale anche a un quarto di secolo dal massacro.

Accanto a loro, si muovono numerosi attori della cooperazione internazionale, che le supportano in questo cammino di rinascita e autodeterminazione. È questa l’unica eredità positiva delle tragedia ruandese, una generazione di donne che hanno saputo ricostruire sé stesse e il proprio Paese su basi nuove, superando le discriminazioni di genere prima ancora di quelle etniche. Sono loro l’antidoto più efficace alla violenza, il baluardo che potrebbe impedire il ripetersi dell’orrore in questa porzione d’Africa dove il conflitto non muore mai, ma si limita a serpeggiare come brace sotto la cenere, in attesa di divampare nuovamente. Sempre nell’indifferenza, o peggio con la complicità, di un Occidente avido di risorse e avaro di umanità.

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