Ragionando di integrazione razziale, negli Usa e da noi
In maggio, di ritorno dagli Stati Uniti, raccontavo della scoperta fatta in South Carolina di un “Museo del nuovo Sud”, che affrontava in maniera pedagogica e propositiva e coinvolgente il tema del razzismo, in una delle zone che più ha da farsi perdonare in materia di rapporti bianchi-neri-ispanici. Mi sembrava importante, e interessante, proporre quel modello in un’area e in una comunità – quella milanese e lombarda più in genere – che su quel problema sembra sbandare fra ordine pubblico e assistenzialismo. Pare che a nessuno interessi affrontare il “nuovo” con un atteggiamento di comprensione umile e creativa.
Torno ora sull’argomento descrivendo un’altra iniziativa “made in USA”, non per facile filoamericanismo ma perché ho sperimentato di persona la serietà con cui laggiù ci si interroga – anche con brutale sincerità – sulle “diseguaglianze razziali”. Sì, lo so, l’unica razza è la “razza umana”, eppure non c’è timore, laggiù, nell’usare il termine duro e nudo, che poi è quello che emerge nei momenti di “crisi”. Perché è semplice quando tutto va bene parlare di “dialogo fra culture” o di “coesistenza di diverse etnie”, ma poi arrivano le espressioni offensive, nelle curve degli stadi piuttosto che sul tram o nei negozi, e allora… Magari possiamo imparare a fare meno accademia e a metterci nell’ottica del superamento dei pregiudizi e delle discriminazioni.
In quel Paese ha ormai una lunga storia il principio della cosiddetta “affermative action”, che prevedeva, già dagli anni 60, con Kennedy, Johnson e perfino Nixon, una cosciente forzatura nel principio di uguaglianza fra tutti gli esseri umani per facilitare la mobilità e la promozione sociale per le fasce meno protette e fortunate. Che Colin Powell, Condoleeza Rice e Barack Obama siano arrivati ai vertici della struttura e del potere dello Stato federale è solo l’esempio più clamoroso di uno sforzo di affermazione della uguaglianza sostanziale e non solo formale. Certo, anche lì (come in Gran Bretagna e altri Paesi) ci sono stati alti e bassi, mugugni e furbizie, occasioni colte al volo e buona pedagogia, finché la Corte Suprema ha accettato le proteste per “reverse discrimination” (discriminazione a rovescio) e ha chiesto di tornare al quadro costituzionale.
Ma intanto il meccanismo si era messo in moto. In molte situazioni le assunzioni ormai avvengono “per quote”, senza sottovalutare il merito naturalmente, ma facilitando le diverse etnie, e/o il “genere”. I giornali, per esempio, negli Stati Uniti tendono ad assumere cronisti neri, asiatici, ispanici, oltre che bianchi, donne oltre che uomini, perché oltretutto hanno maggiore facilità di entrare nei quartieri caratterizzati da popolazione di quel “colore”. Quanti giornali da noi si sono dotati di cronisti arabi o africani o europei orientali?
Ma veniamo alla iniziativa americana che ci permettiamo di segnalare ai candidati in corsa per le elezioni amministrative di Milano della prossima primavera, ma anche alla Commissione cultura della Regione Lombardia. E ai centri accademici di studio e ricerca, le Università.
Bene. All’Università di Pittsburgh (Pennsylvania) in giugno si è svolta una Conferenza Nazionale dal titolo “Race in America”, con sottotitolo “Restructuring Inequality”. Spiega il professor Larry Davis, preside della Scuola per i Lavori Sociali e direttore del Centro sulla Razza e i Problemi Sociali: “Nonostante i significativi progressi ottenuti in America in tema di eguaglianza razziale, molto rimane da fare. Le disparità sono ancora parecchie in campi come l’istruzione, il lavoro, la violenza, le quote di carcerati, i settori della salute fisica e mentale. La Conferenza ha portato a Pittsburgh studiosi di varie tradizioni e culture, ricercatori, studenti, leader industriali, pubblici ufficiali. Proprio questo periodo di difficoltà economica può permettere di inserire il tema della uguaglianza razziale fra gli obiettivi da raggiungere, una opportunità per cambiare”.
E allora ecco le sessioni dell’iniziativa che hanno affrontato temi come (mi limito a riportare un po’ di titoli):
– Dove le minoranze sono maggioranza: nel sistema giudiziario;
– Il colore del denaro: disparità economiche fra razze;
– La famiglia è importante: come rafforzare i legami familiari delle minoranze;
– La qualità dei servizi sanitari per le minoranze;
– Demografia multirazziale e definizione sociale di razza;
– Come la polizia interagisce con le minoranze;
– I problemi di disciplina nella scuola per le minoranze;
– I fattori sociali che portano a disparità nella salute;
– La giustizia è cieca? Il pregiudizio razziale nella politica di ordine pubblico;
– Cause conseguenze e rimedi della spirale di povertà;
– Il gap di apprendimento nelle scuole;
– La “via dei bianchi”: discutiamo di privilegi e vantaggi;
– L’America post-razziale: si va verso un Paese indifferente ai colori della pelle?
E’ quest’ultima la vera domanda (“America, a country color-blind?”) che tiene in piedi l’intera costruzione: il fatto di avere un presidente di colore, porterà finalmente gli Stati Uniti a non ragionare più in base al colore della pelle? Arriverà il giorno in cui non sarà più necessario specificare che il presidente Obama è “colored” (o “abbronzato” come ebbe a dire il nostro ineffabile presidente del Consiglio)? Un po’ come dovrebbe succedere da noi, quando invece specifichiamo ancora che un sindaco è donna, che un presidente di Tribunale è donna, che un direttore di giornale è donna.
Passiamo la palla a chi lavora nella “cosa pubblica” perché anche da noi si affronti con coraggio il tema dei rapporti fra razze, etnie, culture, tradizioni, senza fingere buonismi e senza alzare barricate, ma semplicemente cercando la più corretta e ampia applicazione dei principi costituzionali di uguaglianza sostanziale. Chi ci sta a parlarne e poi ad agire?
Lascia un commento