Restituire al Primo Maggio il senso della Festa nel segno della sostenibilità
Se si vuole tornare a celebrare il Primo Maggio come Festa del Lavoro, occorre che il lavoro durante tutto l’anno perda i connotati della tragedia, dell’ingiustizia, della povertà e della scarsità per assumere quelli di una sostenibilità integrale.
Innanzitutto, il Primo Maggio sarà una festa col lutto al braccio finché si dovranno registrare morti sul lavoro in aumento. I dati relativi al 2018 sono terrificanti: le morti bianche sono aumentate del 10,1% nel 2018, 1.133 vite spezzate per guadagnarsi il pane, per sé e per la propria famiglia, in media 3 morti al giorno. E ciò in presenza di una riduzione dei posti di lavoro (almeno di quelli non in nero) nell’ultimo decennio del 25%. Serve una nuova cultura della sicurezza sul lavoro, che non si limiti ad adempimenti burocratici, ma che incida in modo sostanziale nella prevenzione che può salvare vite umane. E servono adeguate risorse mirate allo scopo.
Occorre, in secondo luogo intervenire per ristabilire un nuovo equilibrio tra capitale e lavoro nella determinazioni dei salari, affermando in maniera concreta gli articoli 1, 3, 4, 35-38 della Costituzione, facendoli prevalere su eventuali vincoli esterni di qualsiasi natura. La strada della svalutazione del lavoro e degli stipendi in funzione della stabilità monetaria, eretta a nuovo idolo a cui sacrificare la giustizia sociale e la democrazia, non appare ulteriormente percorribile senza correre il rischio di innescare una stagione di durissimo scontro sociale. Ciò assume una valenza anche rispetto ai problemi della famiglia e della natalità, essendo il giusto salario, ed i diritti inscindibili che derivano dal lavoro, la misura principe delle politiche familiari.
Un’altra conseguenza del primato della moneta e del profitto sulla dignità del lavoro umano è il lavoro povero e precario, quando non schiavo. Per milioni di lavoratori ciò che concettualmente appare come un ossimoro, lavorare per divenire più poveri, costituisce una terribile realtà, un’ingiustizia che impedisce alle persone di realizzare il proprio piano di vita, e in ultima analisi un indebolimento della vita economica e civile del Paese e della Comunità europea. Un pensiero particolare in questo Primo Maggio, unito alla richiesta di porre fine a situazioni di intollerabile sfruttamento, va ai tanti lavoratori migranti che con paghe irrisorie contribuiscono a creare ricchezza, anche nel sommerso, al di là di ogni forma di contrattazione. Lo stato deve affermare con fermezza e efficacia che non sono più tollerabili discriminazioni sul lavoro, sui diritti e sulle retribuzioni fra lavoratori in ragione della provenienza, dell’etnia o del colore della pelle.
Infine, ma non per ultimo, va superata l’insostenibilità di un modello economico che non mira al pieno impiego ma anzi deliberatamente genera alti livelli di disoccupazione in funzione di una ipermoderazione salariale che non ha alcuna ragione economica ma risulta addirittura nociva in quanto determina un clima di persistente deflazione e di ristagno della domanda interna. É da trent’anni che lo stato fa avanzo primario, che spende meno di quanto incassa, e questo ha finito per assestare un colpo durissimo all’economia italiana: la povertà, le disuguaglianze e la disoccupazione sono saliti a livelli record mentre la capacità industriale, i posti di lavoro e la ricchezza delle famiglie sono calati sensibilmente.
Dunque, tutti coloro che celebrano il Primo Maggio, specie se forze sindacali, sociali, di ispirazione laica o religiosa, devono aver presente che per ridare al mondo del lavoro i connotati della sostenibilità, soprattutto dopo questo ultimo decennio di crisi, l’asticella della sfida si è molto alzata. Non è più il tempo delle sole buone intenzioni e dichiarazioni non seguite dai fatti. Ma è il tempo di cimentarsi in quello che il prof. Stefano Zamagni in una recente intervista all’Avvenire ha indicato, in primo luogo all’associazionismo cattolico: «La strategia non deve essere riformista, perché le riforme hanno il respiro corto. I cattolici ascoltino papa Francesco: serve una trasformazione complessiva del sistema, bisogna cambiarne le fondamenta e l’impianto». Un cambio del paradigma economico in direzione della sostenibilità umana, economica, sociale, ambientale, democratica. Questa è la sfida per il lavoro, che persino gli esponenti più avveduti dell’economia e della finanza globale già considerano prossima. E già si preparano a gestire questo cambiamento d’epoca da una fase economica deflattiva e austeritaria a una espansiva. É aperta la gara per non arrivare per ultimi.
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