Melodia e romantico mistero
La straniera di Bellini torna in scena nell’ambito del Maggio Musicale Fiorentino.
Il LXXXII Maggio Musicale Fiorentino 2019, intitolato ‘”Potere e Virtù”, vanta quest’anno una programmazione nel segno della sua migliore tradizione; un cartellone ricco, colto, pieno di idee e di quell’entusiasmo che sembra aver fatto rinascere nella città la voglia di andare a teatro e, soprattutto, ha attirato anche da fuori Firenze un pubblico interessato alle proposte di un Festival inauguratosi con un’edizione del Lear di Aribert Reimann, opera cardine del Novecento musicale ispirata alla celebre tragedia di Shakespeare.
Una rarità è tutto sommato da considerarsi anche l’edizione de La straniera, opera di Vincenzo Bellini che seguì al trionfo col quale il compositore catanese si era guadagnato i favori del pubblico milanese, mettendo in scena al Teatro alla Scala Il pirata, nel 1827. Due anni dopo fu la volta de La straniera, anche questa volta con libretto di Felice Romani, che ebbe come prima illustre protagonista il soprano Henriette Méric-Lalande. Come era già capitato col Pirata, Bellini sperimentava uno stile che si apriva al romanticismo, nel caso dell’opera in questione ad atmosfere gotiche e tempestose che si riflettono non solo sull’amore travagliato della protagonista, Alaïde (La straniera), regina costretta a nascondere la propria identità dopo essere stata allontanata da corte per motivi dinastici, ma anche sulla sua immagine di eroina attraversata da un senso di colpa che ne colora tragicamente il carattere, in bilico fra abbandoni malinconici e tragiche marcature caratteriali che rendono il personaggio tanto interessante.
La struttura dell’opera stessa tenta di dilatare le forme aprendole ad una discorsività musicale altamente espressiva, concedendo ampio spazio al declamato eppure mai rinunciando a quel lirismo in cui Bellini, seppur in vena di sperimentazioni formali, trova sempre se stesso, ossia in quel melodismo capace di dar anima alla parola, che qui si fonde ai temi più consoni allo stile romantico, con visioni naturali (il tema del lago è fondamentale nell’economia dell’opera) e netti richiami ad atmosfere di sapore gotico che si rifanno a climi misteriosi e leggendari cari al pubblico che ascoltò la prima scaligera nel 1829. Per quanto la tragica stringatezza dell’opera appaia talvolta depistante, il fluire della melodia sa dove prendere forma, sublimando l’espressione dei sentimenti, soprattutto quando in scena c’è la protagonista. Ed ecco il suo ingresso nel primo atto, che non avviene con una cavatina, bensì con la sua voce che “da lontano” intona “Sventurato il cor che fida nel sorriso dell’amor”; poi la sublime sezione centrale del successivo duetto con Arturo (“Ah! se tu vuoi fuggir”) e ovviamente l’aria finale dell’opera, con la magnifica melodia “Ciel pietoso, in sì crudo momento”, seguita dalla drammaticissima invettiva della cabaletta “Or sei pago, o ciel tremendo”. Insomma una partitura che, seppur considerata minore (e a conti fatti lo è rispetto ad altri capolavori belliniani), merita comunque di essere riscoperta e ristudiata per i suoi indubbi intenti sperimentali (si ascoltino i cori, di schietta impronta popolare, il bel finale primo e i preludi che danno connotazione all’ambiente che circonda i personaggi) nell’economia della breve parabola compositiva belliniana. Nel corso del Novecento alcune grandi interpreti si sono interessate all’opera, come Renata Scotto e Montserrat Caballé, solo per citare le più significative, per poi ricordare, in anni più recenti, Renée Fleming, Lucia Aliberti, Alexandrina Pendatchanska, Annick Massis, Patrizia Ciofi ed Edita Gruberova.
A Firenze, dove l’opera è andata in scena nel nuovo allestimento firmato dalla regia di Mateo Zoni, domina la bacchetta di Fabio Luisi, credo il vero asso nella manica di questa produzione. Il suono ottenuto in orchestra – quella del Maggio è davvero mirabile e il Coro, istruito da Lorenzo Fratini, che tanta importa ha nella economia di quest’opera, è parimenti valido – pare mirabilmente proporzionato alle esigenze espressive dell’opera, quindi morbido, soffice, avvolto in una delicata estasi necessaria ai momenti di puro lirismo, nostalgicamente sognante nell’accarezzare la melodia, ma all’occorrenza anche capace di restituire quel velo di mistero che avvolge musica e vicenda con una magistrale finezza nel tratteggiare le cupe atmosfere che le caratterizzano, consapevole di quanto alla vena tragica belliniana competa sempre un’aulica elevatezza classica che richiede un involo levigato pur nella presa di coscienza del trasporto romantico. E il maestro Luisi sa bene come ottenere tutto questo dall’Orchestra del Maggio, di cui è Direttore musicale sempre più apprezzato.
Del minimale spettacolo di Zoni, con scene di Tonino Zera e Renzo Bellanca, formate per lo più da velari e neri pilastri, costumi di Stefano Ciammitti che rivisitano il medioevo in chiave astratta e luci di Daniele Ciprì che regalano nei fondali notturne suggestioni di natura lacustre, creando penombre e riflessi misteriosi, si ammira la capacità di risolvere lo snodo dell’azione intercalando il doppio mondo: quello del palazzo, avvolto nella luce, è quello quasi surreale da dove spunta, come da una penombra misteriosa, Alaïde. Un allestimento che alle visioni di un medioevo visto attraverso l’occhio del romanticismo antepone, spesso in maniera un po’ concettuosa, un universo interiore di malinconia e disperata infelicità.
La compagnia di canto è nell’insieme buona. Dario Schmunck è un professionalissimo Arturo, che fra l’altro non è nuovo alla parte per averla già più volte interpretata sulla scena e consegnata pure al disco, e Serban Vasile, Il Barone di Valdeburgo, un baritono di bella voce e naturale morbidezza, messa però alla prova nella melodia del secondo atto, “Meco tu vieni, o misera”, dove si avvertono piccole sbavature nel sostegno del legato. Laura Verrecchia, Isoletta, ha modo di mettersi in luce nella sua aria con accompagnamento obbligato di flauto del secondo atto, “Ah! se non m’ami più”, che intona con eleganza e si merita gli ampi e meritati consensi del pubblico.
Veniamo alla protagonista, Alaïde, il soprano georgiano Salome Jicia, già nota al pubblico del Rossini Opera Festival di Pesaro, dove l’estate prossima sarà protagonista del nuovo allestimento di Semiramide. La voce è di bel colore, il legato ben controllato e lo stile irreprensibile. Il meglio lo ottiene nel canto patetico e nelle nostalgiche lamentazioni, mentre quando la linea si fa più concitatamente drammatica, qualche asprezza in acuto si fa sentire e nella sostanza l’interprete appare poco intensa e coinvolgente. È pur vero che le eventuali riserve sono da ascriversi, più che al rendimento vocale, alle limitazioni di una personalità espressiva e scenica non sempre capaci di fare del personaggio una vera eroina della sofferenza romantica, avvolta da quel senso di colpa e frustrazione sentimentale tali da renderla fragile ed insieme forte, pronta ad andare lucidamente incontro al proprio destino, senza perdere il senno.
Nei ruoli di contorno si segnalano gli efficaci Shuxin Li, Il signore di Montolino, Adriano Gramigni, Il Priore degli Spedalieri e Dave Monaco, Osburgo.
Pubblico numerosissimo e meritato successo per tutti.
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