Europee, perché il ritorno al bipolarismo non esiste

Il dato che più colpisce delle elezioni europee in Italia è l’affluenza in forte calo rispetto alle politiche dello scorso anno e in controtendenza rispetto al resto d’Europa. Poco più di un elettore su due si è recato alle urne, nonostante il traino che avrebbero dovuto costituire le concomitanti elezioni amministrative in circa la metà dei comuni e nonostante la giornata fredda e piovosa su quasi tutto il Belpaese di questa primavera anomala sconsigliasse le gite al mare. Vi è almeno un 25% dell’elettorato, circa 13 milioni di cittadini oltre quel 20% di astensionismo fisiologico, che col non voto rivela un implicito segnale di disagio.

Fra quanti si sono recati alle urne la logica del voto, ancora una volta nel giro di poco più di un anno, è parsa seguire molto di più il filo degli interessi di classe rispetto a quelli delle etichette ideologiche di stampo novecentesco, soprattutto della classica distinzione fra destra e sinistra. Così nei quartieri bene il Partito Democratico si riconferma primo partito, mentre nei quartieri delle periferie si è passati dal travaso di voti dalla sinistra al Movimento Cinque Stelle del 2016 (Roma e Torino) e del 2018, a quello dai pentastellati alla Lega.

La distinzione fra destra e sinistra non è affatto scomparsa ma si ripresenta in forme inedite dopo che un ventennio di bipolarismo della seconda repubblica, segnato dalla retorica della democrazia dell’alternanza, aveva finito per decretare l’alternanza fra uguali nelle medesime politiche economiche, sfociata poi nei governi delle larghe intese, e dunque l’assenza di una reale alternativa, spalancando la strada alla nascita del terzo polo grillino.

Sotto questo profilo appare sorprendente che il segretario del Pd Zingaretti individui nell’esito del voto europeo un ritorno al bipolarismo. Un ritorno che non esiste sia perché la legge elettorale per le politiche è proporzionale sia perché il M5S nonostante il dimezzamento dei voti appare ancora competitivo come terzo polo in tutto il Sud e in molte altre zone del Paese.

La principale forma di polarizzazione del voto nell’Italia della crisi è ritornata ad essere quella di classe e di censo. Una differenziazione che pesa sugli equilibri del centro-destra, rendendo non più sommabili a livello nazionale i voti di Lega e Fratelli d’Italia con quelli di Forza Italia. E che pesa sulle prospettive del centro-sinistra dove il problema non è tanto la compatibilità fra Pd, + Europa e sinistra radicale ma la complessiva autoreferenzialità del loro messaggio e l’univocità del loro blocco sociale, quello della borghersia medio-alta. Il problema che accusa lo schieramento riformatore sembra essere piuttosto quello della mancanza di una forza, accanto (almeno a livello locale, essendo difficili alleanze nazionali con politiche economiche antitetiche) al Pd macroniano espressione dei ceti dominanti e lontani dal popolo, che sia capace di parlare alla classe media, ai ceti lavoratori e di intercettarne le istanze. Una forza comune con l’apporto di tutte le culture politiche riformatrici (quella cattolico-democratica, quella socialista, quella ambientalista, quella liberal-progressista), incentrata sulla necessità di un ritorno a politiche espansive e alla de-privatizzazione delle politiche monetarie, presupposto indispensabile per poter attuare politiche per lo sviluppo, il lavoro e il welfare, atte a far uscire il Paese dalla stagnazione senza fine prodotta dall’austerità. Un progetto a cui le nuove disponibilità all’impegno politico che vengono dalle varie realtà sociali e associative di ambito cattolico possono portare un grande contributo progettuale, a condizione che lo si voglia perseguire anziché riproporre modelli di alleanza lontani ormai dalla percezione diffusa dell’elettore medio che ricerca forze politiche che non siano di sinistra solo a parole ma che agiscano concretamente per superare la precarietà del lavoro, la sottoremunerazione del lavoro, i tagli alle prestazioni essenziali dello stato sociale e per realizzare grandi interventi strutturali in grado di creare lavoro e sviluppo. Tutti obiettivi non raggiungibili, peraltro, con le attuali politiche di austerità.

E su questa questione decisiva vengono le note più dolenti dalle elezioni negli altri Paesi europei. Ovunque il voto per il rinnovo del parlamento europeo ha seguito logiche nazionali. Così è stato anche nel Paese guida dell’Unione Europea, la Germania. Il voto tedesco non lascia presagire alcun cambio di strategia nelle politiche economiche della prossima Commissione europea. Come conciliare la continuazione dell’austerità, al di là del palese ossimoro, con lo sviluppo sarà la sfida che avranno di fronte tutti i riformisti nei fatti, al di là delle effimere vittorie nazionali dei Farage, Le Pen, Salvini, Orbán e Kaczyński, ininfluenti su un sistema di governance europea basato sul metodo intergovernativo e sulla delega insindacabile alle tecnocrazie finanziarie di vitali aspetti per la politica come l’economia e la moneta. Un sistema che fintanto che durerà, lascerà aperti tanti interrogativi sul futuro dell’Europa.

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