Pescatori, custodi del mare
Il problema della plastica che invade i mari comincia a essere ben conosciuto, grazie all’attenzione che gli organi di informazione gli hanno – finalmente – dedicato nell’ultimo periodo. Ma non è l’unica insidia a minacciare l’ambiente acquatico che, ricordiamo, è molto più esteso di quello terrestre. Altri tipi di inquinamento e fenomeni bio-fisici mettono a rischio questo importante bene comune globale e le sue risorse, indispensabili per la sopravvivenza sul pianeta. Purtroppo, l’urgenza di tutelare questo ecosistema non è ancora sufficientemente sentita dall’opinione pubblica, che non la ritiene una priorità, come del resto avviene con quasi tutte le tematiche ambientali. Proviamo allora a esaminare il degrado dell’ambiente marino da un altro punto di vista, in genere tenuto maggiormente in considerazione: quello socio-economico.
Infatti, oltre a essere indispensabile per garantire l’esistenza della biomassa terrestre, il mare dà di che vivere a milioni di persone che sfruttano direttamente le sue risorse, primi fra tutti i pescatori, i quali dovrebbero dunque essere anche i suoi primi custodi, cosa che non sempre avviene. Lo testimoniano i disastri provocati da reti a strascico, sistemi artificiali per l’aggregazione dei banchi di pesci, abbandono di attrezzature da pesca in mare, eccetera. Ma fortunatamente ci sono anche comportamenti positivi, di pescatori che hanno maturato la coscienza che occorre vivere in simbiosi ed equilibrio col mare, se si vuole che metta a disposizione i suoi doni anche in futuro. Viceversa, il declino delle risorse ittiche continuerà inesorabile, con una tendenza già ben visibile e preoccupante.
Ma torniamo all’aspetto economico: secondo la General fisheries commission for the Mediterranean (Gfcm) e la Fao, la pesca nel Mediterraneo e nel Mar Nero produce un reddito annuo stimato di 2,8 miliardi di dollari e impiega direttamente poco meno di 250.000 persone. Spesso si tratta di aziende di dimensione ridotta, che portano avanti una tradizione familiare, cercando di conciliare il proprio interesse economico con la difesa dell’ambiente e il contrasto ai cambiamenti climatici.
Gli accorgimenti da adottare sono molteplici, a partire da sistemi di pesca mirati, che consentano la cattura di una o più specie di interesse commerciale senza infliggere “danni collaterali” ad altre non oggetto di pesca e inutilizzabili dal punto di vista economico. Sembra una ovvietà, ma purtroppo la quantità di creature marine catturate accidentalmente e ributtate immediatamente a mare come immondizia è enorme e comprende anche uccelli, tartarughe, delfini e altri mammiferi marini. Uno spreco di vita, letteralmente, inutile e deleterio, che impoverisce il mare senza nemmeno arricchire chi causa queste stragi.
C’è poi chi ha incominciato a esplorare la possibilità di coniugare la dura attività in mare con quella della ristorazione e del turismo, analogamente a quanto succede sulla terraferma con gli agriturismi. Un modo per integrare i guadagni e dipendere in misura minore dalla quantità del pescato, che tende a diminuire, spesso in misura drammatica. Nel mare di Wadden, per esempio, nei Paesi Bassi, negli ultimi decenni, il numero di pesci è diminuito in misura considerevole e con esso, parallelamente, il numero di pescatori. Una dimostrazione evidente di come i cambiamenti nell’ecosistema influiscano direttamente sui sistemi sociali ed economici.
Più complesso il discorso sull’acqua-coltura, che consente rese maggiori ed evita di confrontarsi con la forza delle onde in mare aperto per portare a casa il pescato. Da un punto di vista squisitamente economico, la “coltivazione” dei pesci in acqua è sicuramente vantaggiosa, come dimostra l’invasione di salmone e gamberetti, un tempo rari e ricercati, oggi onnipresenti nei banchi frigo dei supermercati. Aumentano le rese e le quantità disponibili, diminuiscono i prezzi per i consumatori. Ma l’industrializzazione della produzione ittica sta già manifestando storture analoghe a quelle degli allevamenti intensivi terrestri: animali gonfiati di proteine per una crescita rapida e sovradimensionata, utilizzo di antibiotici e altri farmaci, scadimento della qualità rispetto al pesce catturato in mare aperto, eccetera.
Tornando al lavoro dei pescherecci, una novità positiva è contenuta nel decreto “Salvamare”, recentemente approvato dal Consiglio dei Ministri, che consentirà di portare a terra i rifiuti plastici ritrovati in mare. Finora invece i pescatori erano costretti a ributtarli in acqua, per non incorrere nel reato di trasporto illecito di rifiuti. Si tratta del recepimento a livello nazionale delle azioni pilota di un progetto siglato con la Francia, il PRISMA-MED (Piano RIfiuti e Scarti in Mare di pesca, acquacoltura e diporto nel Mediterraneo), che coinvolge a vari livelli istituzionali Liguria, Toscana, Sardegna e Corsica. Un’iniziativa simile è il Gac Flag Isole di Sicilia: anche qui i pescatori sono impegnati a rimuovere i residui plastici che intralciano le loro attività di pesca e navigazione, per ora in via sperimentale, ma con l‘auspicio di rendere questa attività strutturale, con il sostegno di chi poi sappia smaltire correttamente la plastica.
Insomma, i pescatori hanno capito che preservare il mare, fonte di vita e sussistenza, è fondamentale, dunque si impegnano quotidianamente in prima persona. Ma la loro dedizione rischia di essere vanificata, se anche noi “terricoli” non prendiamo coscienza della gravità del problema e non iniziamo ad agire in modo responsabile, riducendo l’utilizzo di plastiche usa-e-getta e imparando a smaltire in maniera corretta e differenziata i nostri rifiuti.
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