La forza purificatrice del sogno

Splendido allestimento dell’opera Die tote Stadt (La città morta) di Korngold, mai fino ad oggi eseguita al Teatro alla Scala.

Al Teatro alla Scala va in scena Die tote Stadt (La città morta) di Erich Wolfgang Korngold ed è un trionfo, di pubblico e di critica. Si è parlato come del miglior spettacolo della stagione in corso e, visti i risultati, c’è da crederci.

Korngold fu un compositore austriaco di origini ebraiche, che godette di alterne fortune. Costretto, a seguito delle persecuzioni naziste, ad emigrare in America, ad Hollywood divenne un mito; gli furono assegnati anche due Oscar per la composizione di musica da film, ma quando alla fine del secondo conflitto mondiale tornò in patria si sentì musicalmente un escluso. È facile comprenderne i motivi. La sua musica non sposa alcun filone, anzi ne comprende diversi, che armonizza e fonde con una sapienza a dir poco magistrale. Negli anni Venti del secolo scorso, quando andò in scena La città morta, dimostrò di non sposare le avanguardie della scuola di Vienna; rimase un compositore tardoromantico che subì le influenze di Richard Strauss e di Mahler, ma anche di Puccini – che non a caso lo ammirava, ritenendolo la più grande speranza della musica tedesca di quel tempo – e condì il tutto con quel fascino mitteleuropeo proprio ad un melodismo nostalgico e carezzevole, addirittura incantato, che pare richiamare certa operetta austro-ungarica. Se si ascoltano le sue pagine più celebri, “Glück, das mir verblieb” (l’aria di Marietta) e “Mein Sehnen, Mein  Wähnen” (il Lied di Frank, nei panni di Pierrot), si capisce come quest’opera abbia potuto godere, dal 1920 al 1933, di grande diffusione e popolarità. L’argomento stesso dell’opera, con la sua teatralità mista a richiami onirici, cala lo spettatore in una dimensione freudiana.

Il soggetto dell’opera, su libretto di Paul Schott, è un libero adattamento del breve romanzo simbolista di Bruges-la-morte di Georges Rodenbach; narra di un uomo, Paul, che vive, solo ed inconsolabile dopo la morte della sua adorata consorte Marie, nella bella ma malinconica città belga Bruges, lugubre, austera, legata ad una cultura religiosa le cui pratiche rasentano il bigottismo, evidente anche in diversi atteggiamenti di Paul. La sua abitazione è una sorta di altare commemorativo di un passato che non riesce a cancellare, legato ad una moglie idolatrata e santificata in ogni cosa: anche negli arredi della casa, addirittura nella conservazione di una lunga treccia di capelli dell’amata in una teca di cristallo. Ma un giorno Paul incontra una giovane ballerina, Marietta, che gli appare come la reincarnazione fisica della sua amata. A questi punti scatta il conflitto psichico fra la fedeltà al ricordo della moglie e il legittimo desiderio di una sostituta che lo riporti a vivere. La giovane ballerina, che all’opposto della moglie è una donna sensuale e di facili costumi, seduce l’uomo ma non accetta di essere la sostituta di nessuna; si prende gioco della casa di Paul e degli oggetti che richiamano il ricordo della sua defunta consorte fino al punto in cui l’uomo, in uno scatto d’ira, strozza l’amante con la treccia della moglie, della quale Marietta stessa si era fatta beffa. Ma tutto si rivela essere un sogno, compreso l’evento delittuoso dell’assassinio della ballerina: una volta risvegliatosi dai suoi vaneggiamenti, Paul si trova apparentemente guarito dal legame malato che lo legava al ricordo della moglie e decide finalmente di accettare la proposta dell’amico Frank di lasciare la “città morta” per tentare una nuova vita. Una sfida che lo porta a tentare di ripartire ancora una volta, dopo aver sperimentato prima il vuoto doloroso della perdita, poi una sensualità vissuta nel sogno ed ora un futuro che si gli apre verso orizzonti di speranza, senza dimenticare la donna attesa “nei cieli di luce”.

Il sogno, quindi, come riflesso del vero, un tema caro alla psicanalisi freudiana e all’inconscio; un mondo culturale all’interno del quale lo stesso compositore visse, ancora fedele alle radici di una musica carezzevole nell’armonia e fascinosa nell’ecclettismo che la caratterizza e la rende alle nostre orecchie tanto affascinante. Quando l’opera inizia, dalle prime note si capisce subito quel tocco che porterà Korngold a sviluppare la sua arte compositiva piegandola alle esigenze della musica da film e a tutto ciò che diverrà poi caratteristico al musical americano, anche se il meglio della partitura si coglie in quella capacità di coniugare armoniosamente gli opposti: il carattere sinfonico con quello cameristico; il canto di conversazione tipico dell’opera tedesca con un lirismo avvolgente intriso di estenuato languore; le accensioni quasi veriste con quel tocco di sublime nostalgia che deriva dalla musica di Richard Strauss. Insomma un’opera singolare, a suo modo meravigliosa, che finalmente anche la Scala ha scoperto e fatto amare ad un pubblico entusiasta.

Esecuzione e spettacolo sono memorabili. La bacchetta di Alan Gilbert è ricca di colori, di timbriche e di un equilibrio sonoro sempre pertinente ai diversi climi dell’opera, ben assecondata dai complessi artistici scaligeri. Il cast vocale, davvero eccellente, ha nel tenore Klaus Florian Vogt un Paul che talvolta fatica un po’ dinanzi ad una scrittura vocale complessa, che alterna eroismi (dove si percepisce qualche affanno) a ripiegamenti lirici, riflessi di un personaggio perso nelle sue ossessioni, fra desiderio di irrecuperabile purezza e attrazione per la femme fatale che lo mette dinanzi alle proprie debolezze, anche al contrasto fra la fede religiosità e il richiamo mondano ai sensi. In lui si ammira l’intelligenza espressiva dell’interprete, come nel finale, davvero meraviglioso, nel corso del quale Vogt utilizza ad arte il registro di testa a fini espressivi e crea una atmosfera di sospensione emotiva indimenticabile. Al suo fianco c’è la magnifica Marietta del soprano armeno Asmik Grigorian, che debutta alla Scala dopo una carriera internazionale che già l’ha vista affermarsi al Festival di Salisburgo; soprano dalla voce forse non bellissima sul piano meramente timbrico, ma forte di un temperamento, di un fascino sensuale e di un calamitante dominio del palcoscenico che inchiodano lo spettatore alla sedia. La sua è una prova memorabile, che manda in visibilio il pubblico, già degna di entrare nella storia dell’interpretazione. La classe è una caratteristica anche di Markus Werba, Frank, che intona il Lied di Pierrot con mezze voci e finezze da capogiro. Bravi gli altri, a partire da Cristina Damian, Brigitta, governante di Paul, fino al Conte Albert e Gaston di Sascha Emanuel Kramer e agli amici della compagnia di Marietta: la ballerina Juliette, Marika Spadafino, la ballerina Lucienne, Daria Cherniy, il regista Victorin, Sergei Ababkin e una voce nel quintetto, Hwan Am.

Dello spettacolo di Graham Vick, con scene e costumi di Stuart Nunn, colpisce l’intelligenza con la quale il noto regista spoglia la vicenda da ogni riferimento naturalistico al mondo nebbioso e grigio di Bruges, alle sue vie immerse nei canali e intrise di una malata ed insanabile malinconia dai caratteri decadenti. Tutto si sposta all’interno di una abitazione di Paul che appare come una camera mortuaria, tutta bianca, adorna di fiori, con quei candidi tendaggi che paiono usciti dalle pareti di una bara; è il luogo-culto dei ricordi di Paul, dove da un grande schermo tv si vedono i particolari dell’idolatrata estinta: materializzazione visiva delle allucinazioni dell’inconsolabile Paul. Qualche eccesso si avverte quando il regista, nella processione, richiama gli orrori nazisti con svastiche e divise militari, che evidentemente evocano gli orrori dai quali Korngold fuggì allontanandosi dall’Austria per quell’esilio americano che gli diede fama, ma lo rese esule e mai più compreso in patria, neanche al suo ritorno. Ma lo spettacolo funziona, perché la regia, come sempre capita con Vick, è accuratissima e la realizzazione scenica perfettamente conforme alla sua idea.

Al termine della serata ci si scopre tutti korngoldiani e si applaude uno spettacolo che certo si ricorderà; anzi, azzardiamo dire che per giorni si resta come ipnotizzati, con la mente che vaga canticchiando la sublime melodia di “Glück, das mir verblieb” (“Felicità che sei restata”), simulacro delle nostre insanabili malinconie, nelle quali rifugiarsi dinanzi alle delusioni e ai dolori dell’esistenza, come in un sogno purificatore.

Foto di Brescia & Amisano.

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