Coltivare il mare
Il mare è un bene comune fondamentale, che dà lavoro a milioni di operatori del settore e fornisce cibo a miliardi di persone, oltre a garantire la sopravvivenza di decine di migliaia di specie animali e vegetali. È chiaro quindi quanto sia vitale tutelare i nostri mari dall’inquinamento e dall’impoverimento delle risorse a cui sono soggetti da alcuni decenni. Eppure stiamo facendo ben poco in questo senso, mentre d’altro canto portiamo avanti politiche di sfruttamento delle risorse ittiche che aggravano ulteriormente la situazione.
È necessaria dunque un’inversione di tendenza distribuita su tutti i livelli, dai decisori politici all’industria alimentare, dai pescatori ai consumatori. Se vogliamo che il mare continui a fornire quelle risorse così indispensabili alla sopravvivenza della nostra e delle altre specie, occorre rivedere radicalmente i nostri stili di consumo e il modo in cui sfruttiamo le risorse ittiche. Dobbiamo imparare a vedere il mare non più come un pozzo infinito dove pescare “prodotti” inesauribili, ma come un territorio minacciato da uno sfruttamento intensivo che occorre proteggere, imparando a “coltivare” le sue risorse in maniera responsabile ed ecosostenibile.
In sostanza, dobbiamo pescare meno e meglio, capovolgendo i nostri consumi in modo da rimetterli in sintonia con la piramide alimentare e i cicli biologici del’ambiente marino, in modo da minimizzare il nostro impatto su un ecosistema complesso e fragile al tempo stesso.
Per sostenere i bisogni di una popolazione umana in costante crescita preservando l’ambiente marino in modo che continui a essere in grado di fornire risorse, occorre puntare alla parte inferiore della catena alimentare, riducendo il prelievo delle specie che stanno al vertice.
Per capirci, dobbiamo diminuire il consumo dei predatori primari come tonno e pesce spada, molto presenti sulle nostre tavole, che oltretutto, essendo all’apice della catena alimentare, concentrano nelle loro carni quantità elevate di sostanze tossiche persistenti assorbite dalle loro prede, un fenomeno noto con il nome di bioaccumulo, che finisce per introdurre contaminanti anche nel nostro organismo.
È preferibile invece indirizzarsi verso crostacei, mitili e alghe, potenzialmente molto abbondanti e che hanno anche il vantaggio di poter essere coltivati, ovviamente in maniera sostenibile, evitando cioè di commettere errori come la distruzione delle foreste costiere di mangrovie per fare spazio agli allevamenti di gamberetti o la coltivazione di colonie di mitili abbarbicate alle piattaforme petrolifere, dove le acque non sono esattamente salubri ….
Serve quindi un cambio culturale verso nuovi modelli di consumo, ma anche la riscoperta di antichi saperi e tradizioni, quando vivevamo in simbiosi più stretta col mare e gli altri elementi naturali, dunque impattavamo meno su di essi. Un esempio classico è quello del pesce azzurro, oggi pescato in quantità industriali per essere trasformato in mangime per gli allevamenti in acquacoltura di specie più pregiate, quali il salmone. Meglio invece recuperare le sane abitudini di una volta, riscoprendo le elevate caratteristiche nutrizionali di questo alimento base della “dieta mediterranea” e recuperando le ricette della tradizione in grado di valorizzarne i sapori.
È chiaro che un simile cambio di paradigma deve avvenire parallelamente da tutte le parti, con il coinvolgimento attivo dei pescatori, primo anello della catena, per arrivare a un consumo responsabile da parte nostra, passando per una filiera alimentare attenta ai diritti dei lavoratori del mare, alla salute dei consumatori e alla tutela dell’ambiente. Qualcosa che nel complesso sembra attualmente ancora lontana all’orizzonte, anche se non mancano esperienze positive che vale la pena ricordare, come l’impegno dei pescatori siciliani che ha coinvolto 140 imbarcazioni e 400 operatori nella raccolta della plastica dalle calette raggiungibili solo via mare, che in un anno ha consentito di portare a terra oltre 1000 sacchi da 115 litri di plastiche, anticipando le direttive contenute nel decreto “Salvamare”. Interessanti anche le esperienze di pescatori che, riuniti in cooperative, stanno valorizzando la dimensione artigianale e locale del proprio lavoro, certificando il pescato come prodotto fresco prelevato in zona. Importante anche il contributo di quei ristoratori che indirizzano le proprie scelte – e quindi anche quelle dei propri clienti – verso filiere che garantiscono legalità, tutela dei diritti dei lavoratori del settore e rispetto per l’ambiente. Ma, come sempre, la differenza fondamentale è quella che può essere fatta dalla massa dei consumatori che, indirizzando le proprie scelte alimentari in una direzione o nell’altra, in maniera consapevole e responsabile, possono spingere gli operatori della filiera a orientare il proprio lavoro verso un sistema produttivo più sostenibile, attento a preservare le vitali risorse del mare.
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