Carlo Donat Cattin, una lezione sempre attuale

Parlare di Carlo Donat Cattin a cento anni dalla nascita, significa ricordare una delle più importanti figure del cattolicesimo popolare del nostro Paese. Nato a Finale Ligure, il 26 giugno 1919, seguendo le orme del padre Attilio, storico dirigente del Partito popolare di don Sturzo, si ritrovò precocemente attratto dalla politica e dalle questioni sociali, divenendo dirigente della Fuci, la federazione universitaria cattolica. E in quell’ambiente, sul finire degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, incontrò molti dei futuri uomini della Dc, tra cui Aldo Moro (che della Fuci era presidente) e Giulio Andreotti. Chiamato sotto le armi, dopo l’8 settembre, Donat Cattin entrò nella Resistenza e subito dopo nel sindacato: prima nella Cgil unitaria e quindi nella Cisl, nata dopo la scissione cattolica nel 1948, di cui divenne uno dei più importanti esponenti. In parallelo all’attività sindacale, vi fu anche quella di amministratore locale, nel Consiglio comunale di Torino. Nel 1958 l’approdo in Parlamento e quindi l’ingresso al governo, come ministro del Lavoro, dell’Industria e della Sanità.

Pochi uomini politici seppero portare, come fece lui, le istanze dei lavoratori nel Palazzo. La promozione del mondo del lavoro, in tutte le sue forme e modalità, la tutela dei suoi interessi e delle sue esigenze furono la bussola che orientarono la sua intera vita pubblica. Un impegno che vide il suo momento più alto con l’approvazione, nel 1970, dello Statuto dei lavoratori. Finalmente i diritti costituzionali entravano nelle fabbriche, finalmente venivano riconosciute le più ampie tutele (pensiamo all’art. 18, oggi purtroppo del tutto smantellato) a chi vive unicamente del proprio lavoro.

Questo era Donat Cattin, che nella Dc rappresentò la corrente della sinistra sociale, in parallelo all’altra sinistra interna, quella di Moro, di cui non condivise il disegno di avvicinamento al Partito comunista. L’anticomunismo fu un suo perenne tratto distintivo. Contestò, in ogni occasione, la pretesa del Pci di ergersi ad unico ed indiscusso nume tutelare della classe operaia. Sosteneva che la linfa più autentica della Dc stava nelle sue radici cattolico-popolari, la cui perdita avrebbe condotto il partito ad un grigio e piatto moderatismo.

Fu sempre avverso a qualsiasi legge elettorale maggioritaria che avrebbe gettato la politica nelle mani di un ceto di notabili eletti nei collegi uninominali rendendo più difficoltoso far valere le esigenze delle classi subalterne. Intravedendo, per di più, nel maggioritario il cuneo che avrebbe fatalmente spaccato la Dc tra un’ala destra e un’ala sinistra. Riteneva invece che andasse difeso il sistema proporzionale con il voto di preferenza affinché fossero i cittadini, e non le consorterie oligarchiche, a scegliere chi inviare in Parlamento. E assieme al proporzionale considerava importante il ruolo dei partiti. Temeva – ed aveva ragione – che colpendo l’uno si sarebbe indebolito anche l’altro.

Il partito era per lui la struttura più adatta per fare emergere, dal basso, gli interessi dei ceti popolari, facendoli confluire dentro le istituzioni. Per questo i partiti – si rifaceva al suo, ma svolgeva un ragionamento più generale – dovevano essere realmente plurali, aperti al dissenso, organizzati internamente su basi democratiche, la cui direzione dovesse riflettere, su basi proporzionali, le diverse sensibilità presenti.

Centralità e dignità del lavoro, promozione delle classi subalterne, partecipazione democratica (metodo proporzionale e preferenze). In pochi punti essenziali, la traccia di un progetto politico di forte caratura sociale. Questa la lezione, più attuale che mai, di Carlo Donat Cattin. Qualcosa che dovrebbe far riflettere tutti quei sedicenti riformisti che hanno perso il contatto con i ceti popolari, regalandoli alla destra sovranista.

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