Irene Borgna: lupi, fra leggenda, disinformazione e realtà (1° parte)

Pochi animali come il lupo riescono ad accendere il nostro immaginario collettivo. Protagonista di innumerevoli racconti, fiabe e leggende, è diventato suo malgrado la personificazione del pericolo, il temibile “lupo cattivo” evocato per suscitare paure ancestrali. Una rappresentazione piuttosto lontana dal vero, ma che ha tuttavia contribuito a scatenare una persecuzione spietata verso questo animale, tanto da determinare la sua quasi totale scomparsa dal nostro Paese.

Solo con l’avvento di una nuova coscienza ecologista questo carnivoro all’apice della catena alimentare è stato ricollocato nel suo ruolo naturale e posto sotto tutela ambientale, circostanza favorita dal fatto che, essendo praticamente scomparso, non veniva più percepito come una minaccia. Ma ora che è tornato a crescere di numero, colonizzando diverse valli alpine e affacciandosi anche in pianura, ecco che rispuntano paure e timori mai sopiti, fonte di odio latente e volontà di riprendere la caccia verso questo predatore, mentre sull’altro lato gli animalisti ne chiedono la salvaguardia.

Per capire quale sia la situazione attuale, in particolare per quanto riguarda il territorio del Piemonte, abbiamo parlato con Irene Borgna, antropologa alpina che ha lavorato sulla comunicazione del ritorno naturale del lupo per il Progetto europeo LIFE WOLFALPS.

Da quando il lupo è tornato a crescere di numero e a ripopolare le valli piemontesi?

A partire da metà anni ’90. Le ricerche sulla genetica degli animali ci dicono che si tratta di esemplari originari dell’Appennino che, poco per volta, generazione dopo generazione, hanno risalito valli e catene montuose colonizzando l’arco alpino piemontese a partire dalle Alpi Liguri e Marittime, per poi avanzare verso le Cozie e le Graie, con branchi stanziali in ognuna delle vallate principali, sconfinando anche sul versante francese e – nell’ultimo periodo – verso zone collinari e di pianura. Il loro numero è comunque ancora ridotto, circa duemila in tutta Italia, qualche decina in Piemonte, con branchi composti in media da 5 individui, che possono risultare più numerosi quando sono presenti contemporaneamente i cuccioli dell’anno e i giovani dell’anno precedente, che non hanno ancora lasciato il branco d’origine per andare in dispersione.

A cosa è dovuto un avanzamento così rapido ed esteso, a fronte delle abitudini stanziali di altri “selvatici” che si limitano a occupare un proprio territorio circoscritto?

In fondo è quello che si chiedono tutti: chi glielo fa fare ai lupi di spostarsi? In realtà anche i lupi sono animali territoriali: ogni branco delimita e difende attivamente il proprio territorio da esemplari estranei, arrivando a ucciderli. Un branco non è altro che una famiglia con una forte organizzazione gerarchica: madre e padre sono gli esemplari dominanti, chiamati anche alfa, e sono gli unici che si riproducono. I figli hanno una posizione gregaria, subordinata: una volta raggiunta la maturità sessuale, intorno all’anno e mezza di età circa, gli unici modi per “emanciparsi” sono o tentare di conquistare una posizione di dominanza all’interno del branco, oppure – ed è quello che accade nella stragrande maggioranza dei casi – abbandonare il branco di origine e andare in dispersione, ovvero alla ricerca di un territorio adatto e ancora libero e di un compagno di sesso opposto con cui fondare la propria famiglia. Se teniamo conto che il territorio di un branco sulle Alpi occupa in media 100/150 chilometri quadrati, si evince che ogni vallata può ospitare pochi branchi, massimo due se la valle è particolarmente ampia. Questo fatto dà origine a lunghe peregrinazioni, che portano a una dispersione su un areale via via più esteso. È documentato il caso di un esemplare che, partendo dalle valli meridionali del Piemonte, è arrivato nei pressi di Monaco di Baviera.

Come fanno a compiere spostamenti così lunghi in zone spesso urbanizzate, senza entrare continuamente in conflitto con gli umani?

Si spostano prevalentemente di notte, arrivando a percorrere anche 50 km per volta, sfruttando aree boscate relitte e le aste fluviali. In pratica, spesso camminano lungo le rive di fiumi e torrenti, il che dà loro diversi vantaggi, perché le aree ripariali sono ricche di vegetazione che può dare riparo e che ospita una notevole quantità di selvatici (caprioli, cinghiali, etc.) che possono diventare loro prede. Inoltre questi percorsi consentono loro di passare sotto i ponti ed evitare l’attraversamento di strade, fattore di rischio elevato, visto che l’investimento da parte di veicoli è una delle principali cause di morte del lupo. Per il resto, cercano di evitare il più possibile il contatto con l’uomo.

I lupi sono un pericolo per le persone?

Nel contesto rurale e alpino dei secoli scorsi, ci sono stati incidenti fra lupi (spesso affetti da rabbia) e persone, soprattutto bambini e bambine lasciati da soli al pascolo. A quei tempi, donne e uomini abitavano ovunque: ogni collina, montagna, valle, poggio o prato d’Italia era vissuto, pascolato, coltivato. Dove si insedia, la nostra specie disbosca, impone i propri armenti ed elimina chi la disturba. A fine Ottocento avevamo sottratto al lupo l’habitat – il bosco – e le prede – gli ungulati selvatici, che in molti luoghi abbiamo cacciato fino all’estinzione. Senza spazi dove andare e privati delle prede selvatiche, i lupi si rivolgevano ai domestici e – di rado, ma è successo – a chi li sorvegliava. Oggi queste condizioni non ci sono più, almeno non nell’Europa occidentale. Non ci sono particolari ragioni, dunque, per aver paura di un lupo incontrato in condizioni naturali. Certo, disturbare un lupo nella tana o avvicinarsi a un lupo intrappolato, vuol dire esporsi inutilmente al rischio di provocare una reazione brusca da parte dell’animale.

Quindi a cosa è dovuto l’odio e la paura verso di loro?

Dicevamo delle paure: le loro radici affondano in incidenti legati al passato. Ma a partire almeno dal Medioevo, si è lavorato di fantasia e in Europa il lupo è diventato il simbolo di ogni negatività – della lussuria, dell’ingordigia, della crudeltà – praticamente un’icona del male assoluto. Ma non bisogna dimenticare che queste sono metafore che abbiamo appiccicato addosso al lupo e non caratteristiche di un animale che, di suo, ha la sola colpa di essere carnivoro e cacciatore.

Un ruolo importante lo gioca la disinformazione: molti nemmeno sanno come sia fatto un lupo. Questo perché quando la stampa ne scrive, utilizza immagini di repertorio che magari arrivano dal Nordamerica, dove questi animali raggiungono dimensioni ragguardevoli, intorno ai 60 kg e possono incutere timore. Ma i nostri esemplari sono più piccoli, fra i 30 e i 40 kg, come un cane di media taglia. Spesso quando qualcuno riesce a vederli da vicino, magari nel centro faunistico “Uomini e Lupi”, si stupiscono delle dimensioni degli animali adulti e pensano che siano cuccioli!

Differente e motivata è l’avversione di chi, per lavoro, si trova a dover affrontare il lupo: è il caso degli allevatori in alpeggio. Per loro il ritorno del lupo sulle Alpi, dopo quasi un secolo di assenza, ha significato una brusca e indesiderata trasformazione dello stile di vita.

Chi lavora per la conservazione del lupo deve evitare l’errore di presentare una versione edulcorata e idilliaca della natura che a sua volta non corrisponde al vero, tenendo presente che i problemi oggettivi ci sono, e sono importanti.

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