Festival della Valle d’Itria: “Albori e bagliori. Napoli e l’Europa: il secolo d’oro”
Ecuba, Il matrimonio segreto e Orfeo per la 45° edizione della rassegna musicale di Martina Franca.
Il Festival della Valle d’Itria a Martina Franca, giunto alla 45° edizione, resta fedele alle sue scelte colte e raffinate; le coltiva di anno in anno, con un’attenzione per la riscoperta dell’opera di scuola napoletana meno nota se non addirittura sconosciuta, declinata nelle sue tante sfumature, nelle correnti stilistiche che la caratterizzano e di ambiente in cui si diffuse. Così è avvenuto anche quest’anno, con un cartellone dal titolo emblematico: “Albori e bagliori. Napoli e l’Europa: il secolo d’oro”. Un programma, messo a punto con la consueta accuratezza dal direttore artistico Alberto Triola, che insieme al voluto e doveroso omaggio all’anniversario di Jacques Offenbach nel bicentenario della nascita (con la proposta dell’opéra-comique Coscoletto, ossia il lazzarone, commedia in perfetto stile napoletano), ha proposto la rara Ecuba di Antonio Manfroce, il ben più noto Matrimonio segreto di Domenico Cimarosa e la prima rappresentazione in tempi moderni dell’opera “pasticcio” settecentesca Orfeo di Nicola Antonio Porpora. A corollario della programmazione del festival, diversi concerti e l’Opera in masseria, ormai una piacevole consuetudine che vede l’opera comica rappresentata in casolari di rara suggestione e bellezza, immersi nella suggestiva campagna della Valle d’Itria, oggi con la proposta degli intermezzi L’ammalato immaginario di Leonardi Vinci e La vedova ingegnosa di Giuseppe Sellitti.
ECUBA
Occhi puntati sul ritorno sulle scene di Ecuba, che ancora una volta ha permesso di far luce su un compositore, Nicola Antonio Manfroce, forse fin troppo mitizzato e sul quale la ricerca musicologica ha riversato grandi attenzioni. Delle sue sole due opere, Alzira e Ecuba, si conosceva la seconda, già rappresentata al Teatro Chiabrera di Savona, ventinove anni or sono, della quale edizione fu pure realizzata una incisione discografica. Oggi, come allora, l’opera non risulta quel capolavoro che si crede, ma è una partitura “laboratorio” che invita a riflettere. Manfroce morì poco dopo averla messa in scena a Napoli, il 13 dicembre 1812 al Teatro San Carlo, per volere di Domenico Barbaja, lo stesso impresario che pochi anni dopo invitò Rossini nel medesimo teatro, permettendogli di maturare uno stile per l’opera seria completamente nuovo, consapevole della scuola francese ma imbevuto di belcanto. Il genio pesarese affermò che se Manfroce fosse rimasto in vita (mori per malattia a soli ventidue anni) avrebbe potuto dargli del filo da torcere, ponendosi come suo rivale. Ma la storia si scrive con i fatti e non con le ipotesi, così il “caso” di Ecuba resta isolato ed unico; il suo ascolto lo attesta. Si è dinanzi a una partitura che pare precorrere lo stile rossiniano di Ermione, dove l’involo tragico, di ascendenza gluckiana, sembra plasmarmi su una struttura che ricalca i modelli francesi della tragedia e del melodramma di stile classicheggiante spontiniano per cercare soluzioni melodiche più vicine all’opera di scuola napoletana. Non sempre ci riesce, eppure prova a suggerite un punto di contatto fra i generi in vista di una ideale riforma del melodramma italiano del suo tempo, gettando così su di esso una nuova luce, più consapevole di ciò che avveniva in Europa, soprattutto in Francia. Se la sua musica apparì con quell’impronta di novità oggi percepita più per studio che per reale consapevolezza di essere dinanzi ad un genio della musica – sensazione ancor più evidente dopo aver conosciuto il meglio della produzione operistica seria rossiniana, rinata grazie alla “Rossini renaissance” – è innegabile che l’ascolto sia culturalmente prezioso per entrare in quell’universo operistico italico, ancora ampiamente ignoto, che precedette l’arrivo sulle scene del genio pesarese, il cui talento mise un po’ tutti gli altri compositori del suo tempo in ombra.
Di Ecuba ci è piaciuto apprezzare, se non il capolavoro, la capacità di cogliere l’involo tragico all’interno di una drammaturgia che mette in scena personaggi chiave della guerra di Troia. Subito balza all’attenzione dell’ascoltatore la tenerezza d’animo di Polissena, combattuta tra il ricordo del fratello, Ettore, morto per difendere la patria e ucciso da Achille, eroe greco del quale la donna si innamora contro ogni ragione, osteggiata con forza dalla madre Ecuba, sempre in preda ad una furia vendicativa senza tregua e respiro, mentre in qualche modo viene compresa dal padre, Priamo, che vede invece nell’amore fra i due giovani una via diplomatica per porre fine alla guerra. Allo sperato matrimonio si opporrà un destino più tragico, che vedrà l’irrompere dei greci armati dentro le mura di Troia e l’uccisone di Achille, con Ecuba che maledice la genia greca sulle macerie ancora fumanti di una città ormai distrutta. La musica segue, con alcuni momenti di stanchezza, un percorso drammatico non sempre limpido, eppure coglie, anche attraverso l’utilizzo di un canto che si sostanzia di declamazione e di concessioni virtuosistiche, il carattere distintivo di un’opera divisa fra respiro tragico e aperture melodiche non prive di delicatezza, come quelle che fanno di Achille, più che un eroe di guerra, un uomo innamorato.
Lo spettacolo di Pier Luigi Pizzi (autore di regia, scene e costumi, con le luci di Massimo Gasparon), che ha immaginato una struttura scenica bianchissima capace di adattarsi ad Ecuba per poi essere genialmente riplasmata per Il matrimonio segreto, è di impostazione classicheggiante, geometrico nella disposizione degli spazi e delle masse corali del popolo su gradinate poste ai lati della scena, arioso nella caratterizzazione dei personaggi, sempre nel segno di quella compostezza ed eleganza che contraddistingue ogni suo spettacolo. Alcune colte citazioni pittoriche sono utilizzate ad arte per offrire l’idea della costante presenza sulla scena del corpo morto di Ettore, l’eroe sacrificatosi per la sua città, che insieme a lui ha perso ogni speranza di perpetrare la propria fama di città dalle mura inespugnabili; il suo corpo, ad inizio opera, è simile a quello di Cristo deposto dalla croce e messo in vista del suo popolo per tutta la durata dell’opera (si pensa alle suggestioni pittoriche di tante deposizioni dalla Croce e a Il corpo di Cristo morto nella tomba dipinto da Hans Holbein), al quale tutti rendono omaggio in una elaborazione del lutto legata all’idea solenne del suo perenne ricordo. La stessa solennità, dolorosamente umana è mai paludatamente aulica, è cercata in orchestra da Sesto Quatrini, giovane e talentuosa bacchetta che, alla testa dell’Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari e del Coro del Teatro Municipale di Piacenza (istruito da Corrado Casati), con nervi saldi e tante buone intenzioni, ha preso in mano la partitura dopo l’improvviso forfait di Fabio Luisi offrendo una lettura spigliata ma mai sbrigativa, di presa scenica sicura e di buon controllo del palcoscenico, approdando a risultati sorprendenti se si valuta il poco tempo affidatogli per studiare l’opera; segno che si è dinanzi ad un direttore che è ben più di una promessa, ma già una garanzia di preparazione e valore musicale indubbi.
Anche la giovane e ancora inesperta Lidia Fridman, giovanissimo soprano russo preparata dalla Accademia del Belcanto “Rodolfo Celletti” di Martina Franca, è stata catapultata in scena alla prima dopo il forfait per indisposizione della prevista e ben più nota Carmela Remigio, risolvendo con tanta buona volontà una parte forse per ora superiore alle sue possibilità, che richiede una declamazione scultorea ancora non del tutto approfondita, per stile ed accento, da questa pur interessante cantante, dal fisico asciutto e dalla voce percorsa da ombrose sonorità, specchio delle lacerazioni interiori che attanagliano un personaggio tanto tormentatamente tragico. La voce di timbro un po’ acidulo e tagliente di Roberta Mantegna non è parsa sempre ideale per l’impegnativa parte di Polissena, figura dal carattere nobilmente dolente, comunque affrontata con musicalità e ottima consapevolezza espressiva. Le stesse qualità che vanno riconosciute al tenore americano Norman Reinhardt, prestante ed elegante sulla scena, alle prese con una parte, quella di Achille, che ebbe come primo interprete Manuel Garcia e che declina l’eroismo del personaggio virando l’ago della bilancia espressiva verso un canto di grazia che ha modo di emergere nel duetto con Polissena, nel corso del quale, come si è detto, si evidenzia il lato amoroso e umano più che l’ira funesta del prode guerriero senza pietà verso il nemico. Interpretativamente meno efficace ma vocalmente apprezzabile il Priamo del tenore turco Mert Süngü, alle prese con una parte da baritenore quale fu Andrea Nozzari, risolta con qualche opacità d’emissione ma con impegno belcantistico e stilistico di tutto rispetto. Validi i ruoli di contorno, con Martina Gresia, Teona, Lorenzo Izzo, Antiloco, Nile Senatore, Un Duce Greco e il mimo Giovanni Fumarola, Ettore.
IL MATRIMONIO SEGRETO
Il medesimo impianto scenico di Ecuba viene utilizzato da Pier Luigi Pizzi per firmare l’allestimento de Il matrimonio segreto di Cimarosa, proposto sempre nel cortile del Palazzo Ducale. In questo caso ci si trova davvero dinanzi ad uno spettacolo di riferimento, che fa ricorso alla modernità rimodulando i temi cari a quell’opera buffa napoletana che aveva conquistato il pubblico rendendosi riflesso di una società che cambiava ponendo in essere l’emancipazione delle servitù sulla nobiltà, o meglio della borghesia sull’aristocrazia, facendosi portavoce di una dimensione domestica venata di patetismo e mezze tinte nel narrare vicende che vedevano sempre il trionfo di innamorati osteggiati con lo scorno, più scherzoso che astioso, di vecchi padri o tutori. Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa rappresentò in qualche modo il modello ideale di questo genere di teatro musicale, con la sua comicità garbata, intinta di tenue lirismo. Ma al tempo stesso il suo successo divenne anche il simbolo dell’autunno dell’opera buffa settecentesca. La ludica stilizzazione che dona a questa partitura una visione del tutto ideale nel panorama dell’opera comica di fine Settecento consiste proprio in questo: nell’essere ancora squisitamente funzionale a schemi già sperimentati, eppure trovando nella melodia il modo per esprimere una grazia leggera e trasparente, una sintesi assoluta fra sorriso e sospiro. Ecco perché l’intimità di linguaggio soavemente affettuosa, unita alla zampillante inventiva musicale propria allo spirito ludico, fanno del Matrimonio segreto un capolavoro di eleganza fragrante e briosamente scintillante.
Pizzi ben lo comprende e cala la vicenda dell’opera nella modernità senza snaturarne la drammaturgia con inopportune forzature, intuendo come il tutto possa ugualmente funzionare all’interno del raffinato appartamento di un mercante, il Signor Geronimo, che qui diventa un commerciante d’arte contemporanea, nel cui loft sono esposte opere di Fontana, Bonalumi, Castiglioni e Burri; lui è un venditore arricchito che aspira ad un matrimonio di convenienza per una delle sue due figlie: Carolina, che è invece sposa segreta dell’umile Paolino, e Elisetta col Conte Robinson, capriccioso e galante uomo di mondo, mentre Fidalma, ricca vedova, sorella di Geronimo, è donna più matura che accetta con filosofia il passare degli anni ma sente ancora il richiamo dei sensi. Ogni personaggio, nella moderna visione registica voluta da Pizzi, non perde i propri connotati, anzi li valorizza attraverso un percorso registico lucido e chiaro, che mette in evidenza la fisicità dei cantanti, anzi la utilizza per creare, attraverso di essa, una sensualità giovane e fresca, che non cade mai nel facile trabocchetto della sentimentalità, anteponendo alla tenerezza zuccherosa la concretezza dei sensi, giocando sulla modernità che i caratteri possono assumere attraverso un disegno teatrale assai attuale, elegante e insieme esteticamente pregnante.
Tutti i cantanti di questa produzione sembrano nati per rispondere alle esigenze di uno spettacolo tanto meditato. Marco Filippo Romano è un Geronimo perfetto, che non perde occasione per confermarsi, oltre che artista di somma bravura sulla scena, cantante attento a fraseggiare con cura ponendo il giusto accento su ogni sillaba, con intelligente musicalità e scatenante dominio del palcoscenico. Non gli è da meno il Conte Robinson galante e dandy di Vittorio Prato, che canta pure lui con finezza e attenta espressività, cogliendo il lato seduttivo del personaggio con disincantata consapevolezza della sua condizione. Davvero interessante il timbro morbido della bravissima Benedetta Torre, ottima Carolina, così come quello opportunamente più chiaro e appuntito della maliziosa Elisetta di Maria Laura Iacobellis. Il mezzosoprano Ana Victoria Pitts, cantante interessantissima, credo pronta per sviluppi futuri in altro repertorio, è una Fidalma dal colore vocale giustamente scuro e caldo; possiede poi il temperamento giusto per fare del personaggio non la solita vecchia zitella dai sensi intorpiditi, bensì una donna ancora capace sedurre in tutti i modi, anche con sfacciate avances a Paolino, che le subisce con un po’ di imbarazzo, creando così un quadro scenico realizzato con irresistibile presa seduttiva.
Pizzi pretende poi scenicamente molto dal Paolino tenero e molto charmant di Alasdair Kent, costretto a continui “spogliarelli”, ma che non manca di mettersi in luce, oltre che per la gradevole presenza scenica, per la voce piccola e delicata, capace di intonare con grazia e finezza nell’utilizzo del registro di testa la sua bellissima aria del secondo atto. A coordinare le fila musicali dello spettacolo c’è la bacchetta fresca e scorrevole del giovanissimo direttore Michele Spotti, che con delicata prudenza tiene testa al ritmo di uno spettacolo teatralmente così ben congegnato senza mai farne calare la tensione.
ORFEO
Ancora una volta, la stessa struttura scenica ad impianto fisso, utilizzata da Pizzi per questi due spettacoli, serve a far da cornice alla prima rappresentazione in tempi moderni, nella edizione critica di Giovanni Andrea Sechi, di Orfeo di Nicola Antonio Porpora, che andò in scena a Londra il 2 marzo 1736 al King’s Theatre Haymarket grazie a The Opera of Nobility. Il successo raccolto da Händel negli anni d’oro della Royal Academy of Music rinacque sull’onda dell’interesse ancora vivo nella capitale inglese per l’opera seria italiana e Porpora, che diresse la nuova società e ne fu il compositore principale, con la collaborazione del librettista Paolo Rolli, radunò a Londra i più grandi cantanti del tempo e si mise in rivalità con la compagnia di Händel. Fu in quella circostanza che nacque Orfeo. In realtà non è solo un’opera di Porpora, ma quello che si definisce un “pasticcio” che assembla un florilegio di arie, tutte bellissime, tratte anche da altre opere di Johann Adolf Hasse, Leonardo Vinci, Francesco Araja, Francesco Maria Veracini e Geminiano Giacomelli.
L’opera, per quanto sia un collage di arie, non manca di unitarietà drammaturgica, anche se a darle fama furono soprattutto i divi che diedero vita alla prima: Orfeo fu il leggendario castrato Carlo Broschi detto Farinelli; Aristeo, Francesco Bernardi detto il Senesino, castrato prediletto da Händel; Plutone, il basso Antonio Montagnana; Euridice, Francesca Cuzzoni; Autonoe, Francesca Bertolli; Proserpina, Santa Tasca detta Santina. Opera dunque nata per virtuosi assoluti, per cantanti leggendari, capaci di trasmettere quel senso di meraviglia vocale caro al pubblico del tempo, secondo leggi estetiche che superavano ogni riferimento al realismo drammatico; non importava infatti il rapporto fra timbro e ruolo interpretato, ma la capacità di colpire la fantasia edonistica di chi ascoltava.
Lo spettacolo di Massimo Gasparon, che ne firma regia, scene e costumi, è una passerella di splendidi abiti che bastano, insieme al minimalismo delle scene, a fare da supporto alla successione di arie, inframmezzate da recitativi, nelle quali il virtuosismo acrobatico e patetico non sono altro che un banco di prova per mettere in evidenza la bravura dei cantanti. In questa occasione c’è però un direttore, George Petrou, che con la sua orchestra formata da strumenti antichi, Armonia Atenea, offre alle voci un accompagnamento raffinatissimo, un respiro così elegante e consapevole delle finezze orchestrali da lasciare senza fiato. E senza fiato dovrebbero lasciare anche le voci, che come si è detto hanno il preciso obiettivo di stupire, mentre qui altro non comunicano che una sensazione di corretta adesione, un po’ scolastica e poco fantasiosa, all’immane difficoltà di alcune arie. La migliore in campo è la Proserpina di Giuseppina Bridelli, assai brava nella agilità della sua prima aria, dove mette subito in evidenza la croccante incisività e la saettante fluidità della vera belcantista. Non così si può dire del basso Davide Giangregorio, Pluto, dalla emissione opaca e un po’ ingolata, e del soprano Anna Maria Sarra, Euridice, voce lamentosamente filiforme. Di lei migliore il mezzosoprano Federica Carnevale, Autonoe, sicura nel canto di agilità e stilisticamente a posto. Dei due controtenori, entrambi impegnatissimi e alle prese con arie scritte per due mostri sacri come Senesino e Farinelli, si apprezza l’impegno mostrato nel risolvere le difficoltà delle arie di loro pertinenza, ma non la magia virtuosistica qui solo abbozzata. Rodrigo Sosa Dal Pozzo, Aristeo, non ha nella voce, di timbro poco accattivante, come nell’emissione, dove il vibrato certo non lo aiuta, capacità di risultare espressiva.
Raffaele Pe, Orfeo, che è invece di lui più affermato, anzi si segnala fra i cantanti di questo registro impostisi all’attenzione internazionale dando rinnovato prestigio alla scuola controtenorile italiana, offre una prova valida ma interlocutoria. La voce è indubbiamente bella, maliosa nei centri, lo stile impeccabile così come l’eleganza nel porgere e la musicalità indiscutibile. Eppure le arie scritte per Farinelli sono assai complesse, dalla tessitura piuttosto acuta e con quel salto fra i registri che impongono passaggi dall’acuto al grave nel caso dell’aria “Parte talor dal mar” (in cui Pe utilizza anche il registro di petto), o dominio assoluto del legato e della messa di voce nel respiro patetico chiesto da “M’abbandoni, amato bene”. Pe le risolve come meglio può. Si percepisce qualche prudenza o impaccio in acuto e, soprattutto, gli manca lo slancio del vero virtuoso e il fascino del cantare imbevuto di sospesa e dolente elegia. Tutto, nel versante acrobatico, sembra ottenuto a denti stretti, senza quella naturalezza che patisce ogni qual volta la voce è sottoposta a stress e a forzature difficili da sfuggire per voci come la sua. Nulla di grave si intende, perché si è dinanzi ad un cantante coi fiocchi, ma a fronte di scritture virtuosistiche così estreme ben pochi sono i controtenori capaci di evitare gli affanni spesso non scongiurabili quando si abusa del registro di testa o del falsetto rinforzato, con inevitabili conseguenze che impediscono all’ascoltatore di cogliere quel senso di inappagato stupore vocale che regalavano i più celebri castrati del Settecento e che solo una limitata schiera di eletti della stessa categoria vocale di Pe sono oggi in grado emulare, pur con tutti i limiti insiti ai controtenori che oggi affrontano il repertorio che fu degli evirati cantori. Insomma, Raffaele Pe è un ottimo cantante, ma non un acrobata del pentagramma senza rete, che si apprezza ma deve ricorrere ad argini protettivi che gli garantiscano quanto più possibile un controllo dell’emissione, per evitare i rischi che ne conseguirebbero in parti di tale difficoltà.
OPERE IN MASSERIA
Infine, per il progetto Opere in masseria, eccoci agli intermezzi napoletani L’ammalato immaginario di Leonardo Vinci e La vedova ingegnosa di Giuseppe Sellitti (furono rispettivamente eseguiti come intrattenimento fra gli atti de L’Ernelinda di Vinci e Demofoonte di Leo), proposti in diverse masserie della Valle d’Itria, preceduti da una degustazione curata dal Consorzio di Tutela Primitivo di Manduria. Nella magnifica Masseria San Michele, alle porte di Martina Franca, dove li abbiamo visti rappresentati nel cuore della notte, la regia dinamicissima di Davide Gasparro cerca una comunanza fra caratteri e trame dei diversi intermezzi proposti, eseguiti tutti di seguito, con il fil rouge molièriano di finti ammalati e medici improvvisati, di vedove inconsolabili che anelano a farsi sposarsi e di astute trame di travestimento che portano ad un matrimonio di convenienza.
L’allestimento, con scene e costumi di Maria Paola Di Francesco, adattato a seconda degli spazi in cui viene ospitato, prevede l’utilizzo funzionalissimo di un teatrino a forma di scatola scenica dotata di ruote, come ad immaginare un tendone in continuo movimento. Ed i personaggi, che agiscono all’interno e all’esterno di questo carretto comico-farsesco, sono affiancati da due giovani attori, i quali, come fossero clown, hanno il compito di potenziare il divertito incedere della narrazione. I diversi siparietti buffi, messi in musica con fresca scorrevolezza, hanno come si è detto il comune denominatore della malattia, vera o presunta che sia, delineata sotto forma di esibizione del dolore o di ipocondria, o del travestimento che riflette, nella maschera con la quale si presenta, la finzione attraverso la quale celare la realtà.
A questo gioco teatrale a fibrillazione scenica e musicale senza sosta prendono parte Bruno Taddia, nei panni di Don Chilone e Strabone, cantante-attore straordinario e buffo “parlante” di inimitabile presa scenica. E se è un peccato che un abbassamento di voce abbia impedito a Lavinia Bini, come Erighetta e Drusilla, di cantare, doppiata nel canto dalla brava Maria Silecchio, è pur vero che la sua capacità di recitare ne fa una attrice a dir poco formidabile. Funzionale l’accompagnamento dell’ensemble Cappella Musicale Santa Teresa dei Maschi guidato da Sabino Manzo, che hanno reso godibile quella tensione tra l’essere e l’apparire nel gioco di “equilibrio sulla precarietà dell’esistenza” finemente perseguito dall’autore dello spettacolo. Perché gli intermezzi, eseguiti nel Settecento fra un atto e l’altro delle opere serie, o talvolta anche singolarmente, utilizzavano i modi della Commedia dell’Arte per offrire, con gli strumenti di una comicità accentuatamente parodista, elementi di denuncia e critica ai costumi sociali del tempo.
Successo per tutti gli spettacoli e per una formula festivaliera che continua a funzionare, accogliendo un numeroso pubblico, proveniente da ogni dove, in una città che, come Martina Franca, con le sue bellezze e la sua atmosfera, ha un fascino davvero unico.
Foto di Clarissa Lapolla e Paolo Conserva.
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