Quarantesima edizione del Rossini Opera Festival di Pesaro
Una discussa Semiramide, L’equivoco stravagante e la ripresa di Demetrio e Polibio.
Quaranta anni di storia non sono pochi e il Rossini Opera Festival (ROF) di Pesaro li festeggia nel segno della sua tradizione che, per quanto fedele alla meticolosa ricerca musicologica sostenuta dalla Fondazione Rossini, si è plasmata come un guanto sulle possibilità esecutive rapportate ai tempi, seguendo l’onda di quel teatro di regia che crea dibattito e spesso divide pubblico e critica. Pubblico che a Pesaro c’è sempre, proveniente da ogni parte del mondo, facendo della città marchigiana un punto di riferimento obbligato per quegli appassionati che hanno eletto il festival pesarese a meta obbligata del loro irrequieto peregrinare musicale estivo, alla ricerca di emozioni che al ROF non mancano mai. E dire che il Festival di quest’anno non nasceva, forse, sotto quella fortunata stella che spesso ha sorriso agli spettacoli rossiniani pesaresi, sull’onda di una fama costruitasi nel corso di tanti anni attraverso esecuzioni di riferimento, che il pubblico sembra pretendere dal ROF, facendone un marchio di garanzia e di sicura qualità.
L’edizione del 2019 non avrà convinto tutti, ma non ha mancato di far riflettere su come si stia appunto evolvendo la prassi esecutiva rossiniana. Inutile negare che i grandi cantanti di un tempo, quelli che accendevano entusiasmi da stadio, sembrerebbero non esserci più, o sono ridotti ad un manipolo di poche unità. Non mancano invece all’appello professionisti che tanto impegno adoperano per cercare soluzioni stilistiche pertinenti ai passi da gigante che la prassi belcantistica ha fatto negli anni e che a Pesaro viene perseguita con la giusta e opportuna cura, quasi sacrale, formando anche, grazie alla Accademia Rossiniana, i nuovi interpreti del futuro. Molti di questi vengono promossi a ruoli principali e, da qui, spiccano poi il volo aprendo i loro orizzonti su carriere internazionali.
Quest’anno nel Il viaggio a Reims, messo tradizionalmente in scena con i giovani dalla Accademia Rossiniana, intitolata ad Albero Zedda (si sono festeggiati i trenta anni di attività, anche con la pubblicazione di un volume che ne ripercorre la storia), si sono rivelati la splendida Corinna di Giuliana Gianfaldoni, giustamente acclamata dal pubblico, la cui voce galleggia sulle alte sfere del pentagramma accarezzando le note con grazia e morbidezza, ed il Don Profondo davvero ottimo dello spigliatissimo Diego Savini, ma anche l’elegante Lord Sidney di Dean Murphy. Ancora un po’ acerbi, seppure da seguire con attenzione, tutti gli altri, ottimamente diretti da Nikolas Nägele sul podio dell’Orchestra Sinfonica G. Rossini.
Veniamo a Semiramide, il titolo più atteso dell’edizione di quest’anno, che a Pesaro era già nota nella versione critica e integrale, ma che quest’oggi è stata affidata ad un direttore, Michele Mariotti, che ha saputo trasfigurare il valore di un capolavoro che grazie a lui è venuto ad assumere quasi un volto nuovo; non solo più un freddo monumento belcantistico, marmoreo ed estremizzato nelle sue volute virtuosistiche, bensì esaltato nell’intimo della sua drammaticità, ricercata nelle sfumature tragiche di un discorso orchestrale ricercatissimo, mai scontatamente apollineo nell’assecondare il dispiegarsi delle pur sempre necessarie esigenze belcantistiche e, per questo, carico di fremiti e brividi nascosti fra le pieghe strumentali che sembrano sostanziare il vocalismo di un nuovo e più consapevole riflesso teatrale, ovviamente in funzione spiccatamente drammaturgica. Non possiamo immaginare quale capolavoro Mariotti avrebbe saputo ottenere, coadiuvato dall’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e dal Coro del Teatro Ventidio Basso, se sul palcoscenico ci fosse stata una compagnia di canto di veri virtuosi; negare a loro un risultato al di sotto delle prevedibili aspettative, o quel che è peggio sminuire una direzione così illuminante mettendola in relazione solo ed unicamente al rendimento della compagnia di canto, potrebbe apparire come un errore di prospettiva nel non riconoscere al percorso esecutivo rossiniano l’indispensabile apporto di bacchette come la sua, oltre alla pur non meno necessaria presenza di cantanti di valore.
Ciò premesso, Salome Jicia, nei panni di Semiramide, è stata una discreta protagonista; non possiede una personalità vocale singolare, ma canta bene e risolve la parte al meglio delle sua possibilità, con un virtuosismo puntuale anche se senza grandi colpi d’ala. La stessa Varduhi Abrahamyan, che veste i panni di Arsace, ha un colore di voce di intenso rilievo timbrico, in particolare nei centri e, pur con qualche affanno nel registro grave (alquanto costruito più che naturale) ed acuto, riesce a mostrare un buon dominio nel canto di agilità. Anche il basso Nahuel Di Pierro è un Assur di nobile rilievo espressivo e se nelle colorature non ha la perentoria sfrontatezza richiesta, nella sua grande scena del secondo atto, soprattutto nell’arioso “Deh…ti ferma…ti placa…perdona…”, è eloquente, musicale ed espressivamente elegante. Inutile poi mettersi a far paragoni che porrebbero Antonino Siragusa, con tutta la sua lunga esperienza rossiniana, in difetto dinanzi al temibile ruolo di Idreno, che affronta ancora con uno slancio ed una svettante incisività, coraggiosa quando non sempre impeccabile nelle estreme note acute, sonore ma eccessivamente spinte. Va aggiunto che l’intera compagnia, completata dal bravo Carlo Cigni, Oroe, Martiniana Antonie, Azema, Alessandro Luciano, Mitrane e Sergey Artamonov, L’ombra di Nino, si adatta senza esitazioni, anzi risponde perfettamente al percorso registico discutibile forse, ma certo non campato per aria, ideato da Graham Vick, con scene e costumi di Stuart Nunn.
Questo nuovo allestimento non figurerà fra le sue regie d’opera più riuscite, eppure si ammira il grande uomo di teatro che si arrovella la mente per entrare nella drammaturgia di un’opera e per illuminarne i significati nascosti. In questo caso tutto nasce dalla visione di un Arsace bambino, psicologicamente turbato per aver assistito da piccolo all’omicidio del padre Nino per mano della madre Semiramide; questa orribile visione lo condiziona e diviene per Vick una sorta di fissazione che accompagna lo spettatore dall’inizio alla fine dell’opera, mostrando Arsace in mezzo agli effetti del ricordo di questa infanzia turbata (sui muri sono presenti disegni che ricordano l’assassinio del padre e fanno pensare alla celebre scena della villa dal film Profondo rosso di Dario Argento) e nel contempo lo vedono proiettato alla crescita e alla scoperta della sua identità, mentre i grandi occhi della vittima (Nino) dominano sempre la scena con pupille all’interno delle quali si vede il profilo delle mani assassine. Poi ritroviamo un Arsace adulto, che non è en travesti, quindi non un guerriero, ma donna a tutti gli effetti, che intona i duetti con la madre facendo pensare ad un legame fra di loro, in bilico fra l’affetto materno e risvolti saffici mai esasperati anche se fatti intuire. Al di là delle forzature, che sono tante (alcune fanno anche sorridere il pubblico, come il gigantesco orsacchiotto azzurro che fa capolino più volte sulla scena a ricordare Arsace bambino), è inutile negare chiarezza alle scelte del pur discutibile percorso registico di Vick. Il pubblico dissente sonoramente, (almeno così è avvenuto alla prima), mentre la critica si arrovella nel cercare giustificazioni per far passare come comunque valido uno spettacolo firmato da uno dei suoi registi di riferimento, ritenuto geniale anche quando, come in questo caso, lo è assai di meno dei suoi abituali standard nel cercare una chiave di lettura intima e psicanalitica del tutto personale, in diversi momenti depistante e lontana dallo spirito classicistico dell’opera e dall’omaggio estremo incarnato da questo autentico monumento al belcanto che è Semiramide.
Anche Moshe Leiser e Patrice Caurier sono registi della nouvelle vague, affermatissimi e, nel caso del nuovo allestimento de L’equivoco stravagante, firmano uno spettacolo spassosissimo, gustosamente ritmico pur utilizzando un impianto scenico sostanzialmente fisso, dalle pareti a tappezzeria decorate a motivi floreali e dalle prospettive sghembe; vi sono risvolti divertentemente naïve, con richiami bucolici evocati da un dipinto che raffigura un gruppo di mucche che sul finire dell’opera si anima e prende vita suscitando reazioni divertite del pubblico, assai ammirato anche dalla fattura estrosa di costumi farseschi, con grandi nasi e natiche smisurate che danno un sapore spiritosamente comico ma mai volgare a questa farsa dagli esasperati doppi sensi che, dopo la prima, creò non pochi problemi a Rossini e al suo librettista.
Eguale freschezza e vitalità si colgono nella bacchetta di Carlo Rizzi, così come nella vivacità scatenata di un cast pressoché ideale, con due buffi inimitabili, Paolo Bordogna, stizzoso Gamberotto, e Davide Luciano, estroverso Buralicchio: il primo più incisivo e sempre perfetto nella dizione, il secondo timbrato e sfrontatamente atletico; per entrambi vale l’idea che, dinanzi a simili prove, l’arte di essere comici rossiniani, capaci veramente di scrivere pagine da autentica storia dell’interpretazione, sia appannaggio di pochi eletti, come lo sono loro. Si aggiunga la bravura di Teresa Iervolino, Ernestina, perfetta nei recitativi e abile nel far valere un canto morbido oltre che baciato da un timbro contratile adattissimo alla parte e di colore prezioso. Insieme al garbato tenore Pavel Kolgatin, nei panni dell’amoroso Ermanno, c’è la coppia di arguti servi, Claudia Muschio, Rosalia, e Frontino, Manuel Amati, entrambi bravissimi.
Insomma uno spettacolo e una esecuzione musicale che si è posta come carta vincente di un cartellone che ha previsto, dopo questi due nuovi allestimenti, la ripresa di Demetrio e Polibio nella messa in scena già firmata da Davide Livermore nel 2010 e ripresa da Alessandra Premoli. L’intricata trama di antica ambientazione ellenistica cede il passo a una storia di fantasmi immaginata nel backstage di un palcoscenico teatrale, dove gli spettri della famiglia Mombelli (per cui l’opera fu composta) rievocano il soggetto in maniera onirico-spettrale, fra effetti speciali, fuochi fatui, candele che si accendono come per magia e personaggi sempre doppiati dai loro spiriti, così da complicare talvolta la comprensione di un’opera che vive di quell’elegante leggerezza propria al primissimo Rossini. Risentita nove anni dopo, questa partitura composta da un esordiente Rossini, appena quattordicenne, non è che il cartone preparatorio di un genio ancora in erba, ma che già sa utilizzare il belcanto con quelle finalità espressive che gli sono proprie. A metterle in opera, accompagnati dalla sicura bacchetta di Paolo Arrivabeni, alla testa della Filarmonica Gioachino Rossini, l’acrobaticissima e a tratti fin troppo spericolata Lisinga di Jessica Pratt, che si conferma virtuosa a tutto tondo, abilissima nel dare il giusto piglio combattivo alla parte, l’ottimo Demetrio-Siveno di Cecilia Molinari, il nobile e morbido Polibio di Riccardo Fassi, basso che riserva continue sorprese, ponendo sempre più le basi per un luminoso futuro, e l’elegante ma un po’ appannato Demetrio-Eumene del tenore Juan Francisco Gatell.
Ricca la sezione di concerti, compresa la grande passerella di ugole d’oro rossiniane riunite per il concerto commemorativo del quarantennale del Festival, ma anche recital di canto, come quello, attesissimo, di Angela Meade, esibitasi, superbamente accompagnata al piano da Giulio Zappa, in un programma che, dopo un “Casta diva” di apertura assai deludente e una intera prima parte nel corso della quale il vibrato impediva alla voce di trovare la giusta morbidezza e di piegare l’emissione al canto a mezza voce, l’ha vista risollevarsi con una seconda parte decisamente più persuasiva, con lieder di Schumann e Strauss e una riuscita esecuzione dell’aria di Marietta da Die Tote Stadt di Korngold. Ma era evidente che il celebre soprano americano, diva del Metropolitan di New York, non si trovava in questa circostanza nella sua forma vocale migliore.
Così, ancora una volta, mentre si lascia Pesaro e il suo ROF con un filo di immancabile malinconia, subito si spera che negli anni a venire il nostro futuro continui a colorarsi di tanta musica rossiniana, ammirandone il gioco della sua armonia suprema; ovviamente sperando che tutto si ripeta sempre qui, a Pesaro, che celebra al meglio il suo genio, con le attenzioni che gli sono dovute e con la consapevolezza di onorarne col protrarsi del tempo la verità esecutiva, senza possibili eguali al mondo, come è avvenuto fino ad oggi.
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