Global Week for Future – Biodiversità del cibo

Dal 20 al 27 settembre si tiene la Global #WeekForFuture organizzata dal movimento Fridays For Future (FFF), settimana di manifestazioni per il clima che si concluderà venerdì 27 con uno sciopero globale. In concomitanza, lunedì 23 settembre a New York, ci sarà il Summit delle Nazioni Unite sul clima, dove saranno invitati anche numerosi attivisti del movimento giovanile e dove i capi di Stato e di Governo sono tenuti a presentare piani concreti per contrastare l’emergenza climatica in corso.

Nel frattempo, centinaia di organi di informazione in tutto il mondo hanno aderito alla campagna Covering Climate Now, con la quale si sono impegnati a dare maggiore risalto alle notizie sui mutamenti del clima. Su queste pagine ci occupiamo già da tempo di questi argomenti, ma siamo convinti che non se ne parli mai abbastanza, dato che larga parte dell’opinione pubblica ancora non si è resa conto del fatto che si tratta di affrontare la più grave minaccia per la sopravvivenza del genere umano e che i tempi per reagire sono drammaticamente brevi. Dunque ben venga che i ragazzi di FFF scuotano le coscienze, che la politica finalmente si muova e che il sistema mediatico dia spazio a queste tematiche.

Dal canto nostro, affronteremo l’argomento da un punto di vista un po’ diverso dal solito, ma altrettanto basilare: quello del cibo.

Normalmente, quando si parla di cambiamento climatico ed effetto serra, si pensa all’utilizzo di combustibili fossili per riscaldamento, trazione e produzione di energia. E in effetti qui risiede una grossa percentuale di responsabilità per il riscaldamento globale. Ma anche il sistema agro-alimentare presenta molte criticità, dovute ai sistemi produttivi di stampo industriale che da un lato provocano grandi quantità di emissioni, mentre dall’altro rischiano di collassare e provocare una grave crisi alimentare, a causa della riduzione della biodiversità dei prodotti provocata dell’espandersi delle monocolture.

Analizziamo qualche dato per capire la situazione. Oggi, il 75% del cibo prodotto per il consumo umano deriva da sole 12 specie vegetali e 5 animali. È intuitivo che un sistema di produzione alimentare globale basato su un numero così limitato di specie animali e varietà vegetali, geneticamente uniformi e altamente produttive, costituisce una criticità tanto per la conservazione della biodiversità, quanto per la salute umana. Infatti la perdita di fonti alimentari diversificate riduce le possibilità di far fronte ai mutamenti epocali a cui andiamo incontro, perché diminuisce drasticamente le possibilità di adattamento ai nuovi habitat. Parallelamente, anche la salute umana ne risente, perché la minor varietà alimentare porta maggiori rischi di malnutrizione e di patologie legate all’alimentazione, come il diabete e l’obesità, oltre a una generale minor efficienza delle funzioni vitali e del sistema immunitario. Questo perché, a dispetto dell’apparente varietà dell’offerta commerciale, il cibo che acquistiamo è sempre più massificato e omogeneo, in quanto prodotto da un numero sempre più limitato di ingredienti di base.

Qualche tempo fa, la CBD – Convenzione sulla diversità biologica dell’ONU, ha dedicato l’annuale Giornata mondiale della biodiversità al tema “Our Biodiversity, Our Food, Our Health” proprio per sottolineare lo stretto legame tra biodiversità, cibo e salute umana: «La biodiversità – ha dichiarato Cristiana Paşca Palmer, segretario esecutivo della CBD – non è un lusso, ma una condizione imprescindibile per il nostro benessere» aggiungendo «È il fondamento alla base dei sistemi alimentari e della nostra salute. Non possiamo permetterci di trascurare la nostra dipendenza dalla natura e dare per scontata l’abbondanza dei suoi frutti».

Anche Carlo Petrini, presidente di Slow Food, a sua volta partner di CBD, si è espresso in tal senso: «La biodiversità dei microrganismi, delle specie animali e vegetali, degli ecosistemi, dei saperi tradizionali, è la nostra garanzia per il futuro perché consente l’adattamento ai cambiamenti climatici e garantisce il benessere delle comunità locali. Il sistema di produzione e distribuzione alimentare globale, che si regge su un modello industriale applicato alla natura, non ha risolto i problemi della fame e della malnutrizione, ma ha anzi prodotto conseguenze devastanti, trasformando l’agricoltura in un’attività di sfruttamento e distruzione degli ambienti naturali». Per questo motivo ha rivolto un appello ai governi chiedendo «di adottare misure incisive a favore di un modello agroalimentare sostenibile, che rispetti la salute umana e quella ambientale». Un modello che dovrà essere adottato da agricoltori e produttori, ma soprattutto incentivato dai consumatori attraverso le loro scelte alimentari quotidiane.

In effetti, contrariamente a quella che può essere la percezione del cittadino medio di un paese sviluppato, che vive in un contesto urbanizzato dove l’abbondanza e diversificazione dei prodotti sugli scaffali dei punti vendita sembra garanzia di sicurezza alimentare, le cose non stanno così. Dietro l’apparente inesauribilità delle risorse alimentari e varietà di scelta si cela appunto un mercato agro-alimentare dominato da grandi gruppi economici, che cercano di massimizzare il profitto offrendo prodotti massificati, composti da ingredienti di base ottenuti a basso costo grazie all’industrializzazione delle colture. Un sistema che punta sulla semplificazione della produzione, mettendo seriamente a rischio la conservazione della biodiversità e, conseguentemente, la tutela della salute umana.

Basti pensare che negli ultimi 100 anni più del 90% delle varietà vegetali sono scomparse dai suoli coltivati. Sorte analoga per le specie animali domestiche, che si sono ridotte del 50%. Lo sfruttamento ittico tocca o addirittura supera i limiti di sostenibilità in tutte le principali zone di pesca, mettendo a rischio la sopravvivenza di svariate specie, oltre a quelle di cui ha già causato l’estinzione. Le foreste, le zone umide costiere e altri habitat naturali vengono spazzati via per essere sostituiti da coltivazioni o allevamenti intensivi. Per non parlare del degrado dei suoli, dell’introduzione di specie invasive o geneticamente modificate, dell’inquinamento ambientale e altri disastri sempre causati dall’uomo.

Questa industrializzazione globale della filiera del cibo ha anche pesanti ricadute sociali, perché marginalizza i produttori tradizionali, a volte intere comunità, e cancella progressivamente coltivazioni tipiche e saperi della tradizione. Per questo l’ONU, attraverso le sue varie emanazioni e in collaborazione con movimenti e organizzazioni internazionali, sta lavorando per salvaguardare produzioni autoctone, ritmi produttivi stagionali e in generale la biodiversità della produzione agricola, ritenendo che sia la strategia migliore per aumentare la resilienza ai cambiamenti climatici, migliorare la qualità dei cibi, salvaguardare la salute dei consumatori e incrementare la sicurezza alimentare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.