La parabola politica di Renzi fra improbabile Sinistra e possibile Destra (1° parte)
Tanto tuonò che piovve. Lo strappo a lungo ventilato, accennato, paventato fra Renzi e il PD alla fine è arrivato. Inevitabilmente, verrebbe da dire. Per come è Renzi, ma anche per come è il PD, un partito che millanta una vocazione maggioritaria, ma che non è mai riuscito a trovare un vero amalgama tra le sue diverse anime. E Renzi, leader ambizioso con una notevole vena di autoritarismo,ha cercato di prendere il controllo del partito esasperando una vocazione maggioritaria che non c’è, col risultato di diventare il Segretario più divisivo e meno inclusivo della (breve) storia del PD.
Il Partito Democratico nasce, ricordiamo, dalla unione fra Democratici di Sinistra e Margherita, ovvero fra una formazione di centrosinistra che aveva ormai archiviato il suo passato comunista, aderendo in maniera acritica ai nuovi dettami del “pensiero unico” neoliberista, e una formazione centrista nata dallo sbriciolamento della Democrazia Cristiana, il partito che aveva governato l’Italia dal dopoguerra a Tangentopoli. Una convergenza che a molti era apparsa forzosa e innaturale, tanto da provocare un’ulteriore uscita a sinistra, dopo quelle dei nostalgici del comunismo.
Una descrizione un tantino ingenerosa? Forse. Ma non c’è dubbio che in molte, troppe occasioni il PD ha dimostrato di essere un partito diviso, frammentato in gruppuscoli e correnti che, spesso, non riuscivano a trovare una voce univoca anche su questioni importanti. Quante volte, su questioni interne o internazionali, mentre altre formazioni erano in grado di dare giudizi netti, condivisibili o meno che fossero, abbiamo ascoltato i notiziari ripetere quello che sembrava un mantra, “il PD si divide”.
Da un lato, una componente di Sinistra priva di una bussola di riferimento fin dal crollo del Muro di Berlino, impegnata a far dimenticare il proprio passato comunista sposando le tesi del libero mercato e della globalizzazione, non di rado col tipico zelo dei convertiti. Dall’altro lato, una formazione centrista alla ricerca di una linea che potesse essere di riferimento per gli “orfani” della DC, senza lo spessore, il radicamento e il sostegno compatto del mondo cattolico di cui aveva goduto la Democrazia Cristiana in tutto l’arco della Prima Repubblica.
Le premesse non erano delle migliori, specie in un contesto profondamente mutato, fluido, ondivago, lontano dalle appartenenze e dagli schematismi tracciati dalle ideologie, ma anche dagli ideali, del Novecento. Un contesto dove il voto si sposta a seconda di umori e convenienze del momento, dove l’apparenza conta più della sostanza, lo slogan più di un programma serio e attuabile. Un contesto, cioè che premia l’azione di breve periodo rispetto alla visione di lungo periodo, il vantaggio tattico a scapito del disegno strategico.
È in questo scenario che potremmo definire post-berlusconiano che si affacciano i due Mattei: Salvini, impegnato a ricostruire la Lega dopo il crollo causato dalle gestione familista di Bossi, con una linea basata su populismo, sovranismo, istigazione all’odio e al razzismo, ideale per parlare alla “pancia” delle persone e incanalare la rabbia crescente di vaste fasce sociali; Renzi, che definisce il PD “scalabile” e punta al vertice con lo slogan della “rottamazione”, per deporre una classe dirigente a suo dire –e non solo suo, per la verità– ormai obsoleta. Entrambi abili comunicatori, capaci di sfruttare al meglio i nuovi strumenti mediatici, spregiudicati e ambiziosi, non esitano a puntare su un messaggio negativo – odio, rottamazione … – per garantirsi una presa facile e immediata sull’elettorato. E non tardano ad avere il sopravvento sulla generazione politica precedente.
Ma proprio la loro personalità egocentrica, la loro smania di potere, il delirio di onnipotenza, li frega. Dopo un irripetibile 41% alle europee – quando ancora gli elettori non avevano capito chi era, dicono i maligni…- Renzi si illude che quella sia la sua percentuale di consenso. Da quel momento però inanella solo più una lunga serie di sconfitte, fra le quali quella, particolarmente bruciante, del referendum costituzionale, al quale aveva improvvidamente legato le sue sorti politiche. Alla fine, porta il PD al risultato elettorale più basso di sempre, consegnando il Paese a una coalizione formata da Movimento 5 Stelle e Lega, il punto più infimo della vita istituzionale della Repubblica.
Per sua – e nostra – fortuna, l’altro Matteo, Salvini, anch’egli preda del delirio di onnipotenza dopo aver visto i suoi consensi più che raddoppiati, in un certo senso gli restituisce il favore –e il Paese– decidendo di far cadere il Governo di cui faceva parte da protagonista assoluto, convinto di poter capitalizzare il consenso attraverso nuove elezioni politiche che gli garantissero una maggioranza molto ampia, o addirittura assoluta.
Uno stratega avrebbe puntato a rimanere al governo per tutta la legislatura. Ma come dicevamo prima, ormai i nostri politici sono tattici, puntano sul vantaggio immediato. Ben conscio della difficoltà di mantenere le sue mirabolanti promesse elettorali, Salvini cerca elezioni anticipate che gli diano una vittoria schiacciante. Conta anche sul fatto che Zingaretti, nuovo Segretario del PD e a sua volta caratterizzato da un atteggiamento tattico, sia disposto ad andare a elezioni, pur sapendo di perdere, per sostituire i parlamentari renziani in carica con altri di sua fiducia, ribaltando ciò che aveva fatto in precedenza lo stesso Renzi, con una prassi che sembra lasciar intendere che forse il Partito Democratico sta implementando la sua “vocazione maggioritaria” a scapito della democrazia interna, in barba al nome che si è dato…
È a questo punto che Renzi, a cui va riconosciuta una indubbia astuzia politica, vede l’opportunità di sparigliare le carte e rientrare in gioco da protagonista, con già in mente un disegno complessivo, che però si guarda bene dallo svelare per intero. Prima apre alla possibilità di un’alleanza con i Cinquestelle, che in precedenza aveva sempre dipinto con sarcasmo e disprezzo (per altro ricambiato allo stesso modo). Poi convince Zingaretti a indirizzare il PD in quella direzione, chiamandosi fuori da ogni pretesa di incarichi o poltrone. Infine, dopo che la squadra di Governo si è completata con ministri, viceministri e sottosegretari, annuncia la scissione dal PD e la creazione della sua nuova formazione “Italia Viva”, che guarda caso può già vantare rappresentanti nel nuovo Esecutivo, visto che sono appena stati nominati in quota PD.
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