Ilva di Taranto, un caso locale e globale (1° parte)

Il caso dell’Ilva di Taranto è un perfetto paradigma di come troppo spesso il diritto al lavoro e il diritto alla salute vengano artificiosamente contrapposti per privilegiare i profitti. Ovvero di come gli interessi di pochi vengano anteposti al bene comune dei molti, non di rado con la complicità di ampi settori delle istituzioni e del sistema mediatico. Tuttavia, c’è chi si oppone con fermezza agli abusi di un sistema economico deviato e insostenibile, nel quale multinazionali senza scrupoli decidono di sacrificare territori e popolazioni in nome di uno “sviluppo” che ormai non è più tale sotto nessun aspetto, né sociale né economico, anzi impone pesanti costi e ricadute sulla salute delle persone e sull’Ambiente.

L’ opposizione allo strapotere economico diventa una rete di contatti e di persone che, pur a volte lontanissimi tra loro, scoprono di essere in ugual modo vittime di un sistema produttivo insensato, autoreferenziale, che spesso si regge solo grazie a sovvenzioni pubbliche e interventi legislativi ad hoc, che mirano a tutelare gli interessi del Capitale, mascherandoli con la scusa di salvaguardare posti di lavoro. Ma dopo gli anni ruggenti della globalizzazione incontrollata dell’economia, pian piano sta ora crescendo la globalizzazione della protesta verso le storture e i danni di questo sistema economico. Una protesta, appunto, che mette in contatto persone e comunità distanti fra loro, ma con una lotta comune da portare avanti. In questo modo si creano legami indissolubili e tenaci che, nel caso in questione relativo all’industria siderurgica, possono ben essere definiti “Legami di ferro”, esattamente il titolo del libro di Beatrice Ruscio (edito a cura di PeaceLink e il cui costo di 10 euro va a sostegno della campagna di informazione) che ci racconta i dettagli della vicenda, facendoci scoprire connessioni insospettate e allargando gli orizzonti dal caso specifico alla globalità.

Le vicende del colosso industriale tarantino sono state a lungo sotto i riflettori nel periodo in cui, a causa delle emissioni nocive che rilasciava in atmosfera, la fabbrica è stata posta sotto sequestro dalla magistratura, per essere immediatamente dissequestrata con decreto urgente del Governo di allora in quanto ritenuta sito di interesse nazionale strategico. Vale la pena entrare nel dettaglio, perché è quello il momento in cui la vicenda Ilva travalica i confini di Taranto e della Regione Puglia per diventare, appunto, una questione nazionale. Già nel 2008 la Regione aveva vietato il pascolo in un raggio di 20 chilometri dalla fabbrica, a causa della contaminazione da diossine e PCB (entrambi composti persistenti e cancerogeni) di terreni e bestiame. Fin da allora era parsa chiara la responsabilità dello stabilimento Ilva per il pesante inquinamento che interessava l’area di Taranto, sia sulla terraferma che nelle acque prospicienti, in particolare il Mar Piccolo. Ma invece di intervenire con provvedimenti severi che imponessero alla proprietà di sanare la situazione, i vari Governi iniziano a varare misure che consentono allo stabilimento di proseguire le attività nonostante i rischi per la salute.

Si comincia con l’Esecutivo capeggiato da Berlusconi il 4 agosto 2011, quando l’allora ministro dell’Ambiente (sic), Stefania Prestigiacomo, firma il rilascio dell’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), sottoscritto anche da Regione ed Enti locali, che consente la prosecuzione delle attività purché vengano messe in atto 462 (!) prescrizioni volte a migliorare la sicurezza ambientale. Ma per carità, senza fretta, diamo pure qualche annetto di tempo, tanto l’inquinamento se lo respirano i tarantini, mica i parlamentari. In pratica, si certifica che l’Ilva può continuare a produrre inquinando, anziché imporre l’immediata messa in sicurezza o meglio ancora la totale riconversione produttiva. L’AIA prevede anche un cronoprogramma degli interventi, che naturalmente non viene rispettato, perché ovviamente la messa in sicurezza è un costo che va a erodere i profitti, che sono l’unica cosa che conta per la proprietà. E poi perché tanto si sa che lo Stato impone dei provvedimenti, ma poi mica si mette a controllarle se vengono attuati davvero.

Però ci pensa la Magistratura, con il Gip di Taranto che nel luglio 2012 pone sotto sequestro gli impianti, a causa dell’inadempienza aziendale rispetto alle prescrizioni stabilite. Ma ecco che il Governo, assopito quando doveva controllare la messa in atto dei provvedimenti, si risveglia efficientissimo quando lo stabilimento viene bloccato e provvede in un lampo a convertire in legge un apposito decreto salva-Ilva, che concede all’azienda altri 3 anni per adempiere all’80% delle prescrizioni iniziali. Inutile dire che anche stavolta le norme vengono sistematicamente violate, tanto c’è sempre pronto un nuovo decreto salva-Ilva, veloce e tempestivo come raramente accade nella legislazione italica.

Qualcuno ne ha contati ormai nove, di questi decreti. Non male, per uno stabilimento che ha appestato le campagne tarantine a tal punto da dover abbattere gli animali da pascolo e distruggere i prodotti dell’industria lattiero-casearia, compromettendo irrimediabilmente questo settore. Analogamente a quanto è accaduto per le colture di mitili e l’attività di pesca nelle acque del Mar Piccolo, a causa delle concentrazioni di sostanze tossiche ben superiori ai limiti di legge rilevate negli organismi marini, a loro volta eliminati perché insalubri per il consumo. Attività lavorative cancellate che evidentemente non sono mai entrate nel computo dei costi e benefici da valutare per decidere se tenere in vita una produzione che a sua volta compromette la vita delle persone.

È imperativo evidenziare, infatti, che gli effetti di questo inquinamento sono ormai ben noti a livello epidemiologico. Diossine e PCB sono composti di sintesi altamente tossici, persistenti e bioaccumulanti. Significa che non vengono distrutti dai processi metabolici, dunque risalgono la catena alimentari accumulandosi nei predatori primari, compreso l’uomo, in quantità assolutamente nocive per la salute, specie in relazione alla massa corporea. Ne consegue che i più esposti sono i bambini, che rischiano di assorbire queste sostanze tossiche fin dai primi giorni, perché sono state individuate anche nel latte materno. Perfino con l’atto più amorevole e naturale, una madre rischia di intossicare il figlio a causa dell’inquinamento ambientale in cui entrambi sono costretti a vivere da interessi economici ingiustificabili.

L’incidenza di queste sostanze tossiche è lampante anche sotto il profilo sanitario, in particolare oncologico, con le evidenze cliniche che denunciano “una mortalità per gli uomini in eccesso per tutte le cause –come evidenziato da uno studio epidemiologico riportato nel libro di Beatrice Ruscio – tutti i tumori (inclusi tumore del polmone e della pleura), le demenze, le malattie del sistema circolatorio […] respiratorio […] digerente […] “. Anche la mortalità infantile a Taranto è superiore alla media regionale e nazionale, in particolare nelle zone limitrofe agli impianti, come l’ormai tristemente famoso quartiere Tamburi e gli insediamenti limitrofi dei quartieri Paolo VI e Statte.

Insomma, è noto senza ombra di dubbio che a Taranto le persone, compresi i più piccoli, si ammalano e muoiono più precocemente che altrove in Italia a causa dell’inalazione delle polveri ferrose e degli altri inquinanti che continuano a provenire dall’Ilva. Ma non si interviene in maniera efficace per scongiurare questo pericolo, neppure ora che la proprietà è passata di mano, manco a dirlo, a un’altra multinazionale, che a sua volta non sembra essere molto sensibile ai danni sanitari e ambientali causati dalle sue produzioni in giro per il mondo.

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