Ilva di Taranto, un caso locale e globale (2° parte)

Dopo le vicissitudini della proprietà Riva, quando per anni l’ILVA ha prodotto un inquinamento ben superiore ai limiti di legge, nonostante blocchi e commissariamenti, l’acciaieria di Taranto è stata infine acquisita dal gruppo indo-francese ArcelorMittal, dopo una trattativa complessa, nella quale l’abbattimento delle emissioni inquinanti era uno dei punti centrali. Dunque, non è un caso se in questi giorni si è aperta una nuova crisi per l’azienda proprio su questo tema.

Nello specifico, a provocare lo strappo è stata la questione dell’immunità civile e penale che finora veniva garantita alle figure apicali (prima i commissari, oggi i vertici aziendali) per evitare loro di incorrere in reati ambientali nel periodo di transizione necessario ad attuare le prescrizioni anti-inquinamento. Ma l’attuale Esecutivo ha deciso di abolire questo trattamento di favore, probabilmente per evitare che questa garanzia di impunità inducesse a un minor impegno nell’attuare le disposizioni governative. Quindi un modo per “incentivare” i responsabili ad adottare velocemente le misure atte a salvaguardare l’ambiente e la salute dei cittadini, cosa che forse si poteva ottenere anche con uno stretto controllo sull’attuazione del cronoprogramma degli interventi, sanzionando le eventuali inadempienze contrattuali.

È possibile che sulla decisione del Governo abbia pesato negativamente la sistematica violazione dei tempi e delle normative da parte delle gestioni precedenti, fatto sta che i vertici della multinazionale hanno colto l’occasione per minacciare il ritiro dall’accordo, ufficialmente proprio per questo strappo sulle tematiche ambientali. Ma potrebbe esserci dell’altro, perché il mercato dell’acciaio è in crisi in tutto il mondo, dunque questa potrebbe essere almeno in parte una scusa per abbandonare uno stabilimento che in realtà avrebbe anche qualche problema di sostenibilità economica. Per valutare correttamente il peso dei due fattori, economico e ambientale, in questa vicenda, occorre però ampliare lo sguardo oltre le ciminiere dello stabilimento pugliese, osservando la questione in un’ottica globale.

Perché purtroppo la storia di Taranto non è un unicum. Nel suo libro-inchiesta “Legami di ferro”, Beatrice Ruscio dedica ampio spazio a ricollegare la vicenda della città jonica con quella di Piquià de Baixo, popoloso insediamento della selva brasiliana originariamente circondato da una vegetazione rigogliosa, oggi colonizzato dall’industria siderurgica e ribattezzato Pequia, acronimo che sta per “Polo Petrol-Quimico de Acailandia”, il petrolchimico della terra dell’acciaio. Il minerale di ferro che pervade aria, strade e polmoni dei cittadini di questo sito (per noi) remoto è lo stesso che viene esportato a Taranto, le lavorazioni sono analoghe, la produzione di sostanze tossiche e l’impatto sulla popolazione e sull’ambiente anche.

Due comunità geograficamente distanti hanno scoperto di essere unite da uno stesso destino atroce, che si ripete in molte, troppe zone del globo: quello di essere scientemente e cinicamente sacrificate da un sistema produttivo che in nome di uno “sviluppo” assiomatico – che si sovrappone al mero interesse economico – condanna determinati luoghi e popolazioni a pagare i costi di un modello produttivo obsoleto e insostenibile. Un’oscenità immorale sotto il profilo etico, un’ingiustizia sotto quello sociale, un disastro dal punto di vista ambientale e, come se non bastasse, non conveniente sotto l’aspetto economico.

Abbiamo già detto [nella prima parte di questo articolo] come a Taranto la stessa fabbrica che “garantisce” alcuni posti di lavoro nella siderurgia (peraltro sottoponendo i dipendenti a rischi sanitari inaccettabili) ne abbia in realtà cancellati innumerevoli altri nell’agricoltura, nella pastorizia, nel settore ittico e in quello della trasformazione degli alimenti, discorso che vale anche per tutte le altre comunità sparse per il globo che subiscono gli effetti di produzioni inquinanti o più in generale non ambientalmente sostenibili. Ma c’è dell’altro.

Nella prefazione al libro “Legami di ferro”, Alessandro Marescotti, presidente di PeaceLink, sottolinea l’insensatezza di un sistema economico che pullula di storture, compreso un settore siderurgico con una capacità produttiva di 1,8 miliardi di tonnellate/anno a fronte di una domanda di sole 1,5 tonnellate. Quindi un settore che è strutturalmente in sovraproduzione e che conseguentemente sovra sfrutta le risorse e produce ancora più inquinamento di quanto sarebbe “necessario” per soddisfare la domanda ordinaria. Dunque un settore che, analogamente a molti altri, a partire da quello cementiero-edilizio, ha la necessità di implementare artificiosamente la domanda.

Come?

Per esempio sostenendo l’indispensabile e strategica necessità di nuove infrastrutture e “Grandi Opere”. Guarda caso, esattamente la ricetta che ci viene propinata ciclicamente e da tempo immemore da Governi di diverso colore e da gran parte del sistema mediatico che influenza il pensiero della cosiddetta “opinione pubblica”, inducendoci a pensare che non esista alternativa all’attuale sistema economico-produttivo. E che dunque ci si debba rassegnare ai suoi effetti collaterali, anche quando incidono sulla salute delle persone e sulla salvaguardia dell’ambiente, pena la perdita dei posti di lavoro.

È esattamente la forma di ricatto che da sempre viene imposta ai cittadini di Taranto, costretti a scegliere se subire un inquinamento gravemente lesivo per la loro salute, o rischiare di veder chiudere la fabbrica e perdere migliaia di posti di lavoro. Senza mai prendere in considerazione due alternative perfettamente praticabili, anche se non semplicissime. La prima, continuare a produrre utilizzando tutti gli accorgimenti possibili per abbattere l’inquinamento, da porre in essere il prima possibile, anche se ciò dovesse comportare la riduzione o il fermo temporaneo della produzione, cosa che ovviamente inciderebbe sugli utili aziendali, ma la salute delle persone deve avere la precedenza.

La seconda, di pensare di riconvertire completamente la fabbrica, visto anche il surplus produttivo esistente nel mercato dell’acciaio, superiore alla domanda effettiva. Tanto per fare un esempio, un settore in rapida crescita è quello delle batterie per la trazione di auto elettriche, comparto nel quale in Italia (ed Europa) al momento regna un vuoto cosmico. È solo un esempio, naturalmente. Ma occorre anche tenere conto dei posti di lavoro che potenzialmente potrebbero essere recuperati in agricoltura o nel settore ittico, quelli cancellati a causa dell’inquinamento ambientale, ma che potrebbero essere ripresi se si risana il territorio. Purtroppo, nei conteggi di certa politica, imprenditoria e informazione pubblica, gli unici posti di lavoro che vengono presi in considerazione sono quelli della fabbrica. Una visione obsoleta, in un mondo di fatto già post industriale, eppure ancora largamente dominante, così come l’idea che in nome dei posti di lavoro si possa anche inquinare e mettere a rischio la salute delle persone.

Ma nel mondo continua a crescere un movimento, una rete di persone sempre più consapevoli che il diritto al lavoro non deve entrare in conflitto con il diritto alla salute e che non accetta più passivamente vecchie tesi volte a giustificare un modello produttivo insostenibile, difeso a oltranza dalle classi dominanti in nome dei loro guadagni. Persone che hanno compreso l’urgente necessità di ripensare radicalmente l’attuale paradigma economico e produttivo in un’ottica di sostenibilità. La storia di alcune di queste persone e comunità, che non si rassegnano a essere vittime di un sistema produttivo malato e si battono per un nuovo modello di sviluppo, è proprio quella che ci racconta con empatia e partecipazione Beatrice Ruscio nel suo libro, annodando “Legami di ferro” sottili ma tenaci fra Piquià de Baixo e Taranto.

Per approfondimenti e aggiornamenti www.peacelink.it www.legamidiferro.eu www.beatriceruscio.eu

Riccardo Graziano 5/11/2019

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