Il riscatto morale attraverso la rinuncia e il sacrificio
Risurrezione di Franco Alfano al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino nello struggente allestimento di Rosetta Cucchi.
Come ogni compositore della cosiddetta generazione dell’Ottanta dell’Ottocento, alla quale appartiene, Franco Alfano, al pari di Respighi, Pizzetti, Casella e Malipiero, tentò di affrancarsi, nel melodramma, dal verismo, che a quell’epoca dilagava. Si internazionalizzò, lasciando l’Italia per confrontarsi con i modelli musicali europei utili a donare al suo percorso artistico consapevolezza nel far appunto uscire l’opera dal solco dell’imperante naturalismo, così da sviluppare un nuovo esempio di teatro musicale novecentesco italiano. Il gioco gli riuscì, almeno in parte, in opere della maturità, come La leggenda di Sakuntala e Cyrano de Bergerac, ma in Risurrezione, che è opera giovanile, il solco “verista” è ancora predominante e lo stesso soggetto, ispirandosi a modelli letterari russi, come già avvenuto in ambito verista con Fedora e Siberia di Giordano, pone l’accento sulla centralità assoluta della protagonista, Katiusha, che diviene eroina capace, nel finale, di riscattare moralmente il suo errore d’amore col sacrificio, dopo aver sperimentato il dolore dell’abbandono, il degrado morale e la prigionia; il tutto per aver commesso l’ardire di cedere all’amore del nobile Dimitri, che la seduce e l’abbandona prima di partire per la guerra. Vano è ogni tentativo della donna di ricongiungersi al suo amato alla stazione, nella scena madre dell’opera. Segue l’abisso di sofferenza in cui cade credendosi tradita e a nulla valgono i tentativi di Dimitri di salvarla dalla condanna e di seguirla per farsi perdonare da lei, che ancora lo ama e che da lui ha avuto un figlio, poi morto. L’unico modo per “rinascere” è inteso da Katiusha come fuga da quell’errore d’amore, facendosi una nuova vita in Siberia, nel campo in cui è stata deportata, al fianco del detenuto politico Simonson, che si fa carico della fragilità della donna; lo fa, quindi, riscattandosi dalle sue colpe, attraverso questa rinuncia, sofferta ma consapevole.
Katiusha è sempre stata un’anima pura, una donna che ha ceduto alla passione e l’ha pagata con la sofferenza, rimanendo nel suo intimo una eroina positiva, che ha dovuto lottare con la durezza del vivere, rimanendo però nel suo intimo ingenua come una bambina. È questo forse il motivo per cui il bellissimo spettacolo firmato a Firenze dalla regia di Rosetta Cucchi per il ritorno sulle scene di Risurrezione nell’ambito della stagione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, con scene di Tiziano Santi e costumi di Claudia Pernigotti, vede l’originaria innocenza della protagonista richiamata in scena dalla presenza di una bambina, come a ricordarci appunto la sua limpidezza d’animo mai perduta, anche in età adulta, seppure offesa ingiustamente dal “demone” della fallace tentazione d’amore in cui è caduta. Una donna dai tratti appassionati e sofferti che la regia tratteggia splendidamente, facendoci capire come quel suo attimo d’amore quasi rubato determini l’inizio del suo viaggio attraverso sofferenze e umiliazioni, fino al momento della rinascita, che avviene nel finale, dopo aver vissuto l’attesa inutile del ritorno in treno dell’amato e il successivo degrado che la conduce alla perdita di se stessa in un mare di dolori e vessazioni umane. Ed è proprio in questo momento che lo spettacolo tocca il suo apogeo, dopo aver intelligentemente accompagnato il travagliato percorso di vita della donna che, finalmente sgravata da ogni senso di colpa, dà l’addio al suo amato e si allontana verso un cielo illuminato da una pallida luce solare, mano nella mano con una bambina in mezzo alle spighe di un campo di grano: il suo inconscio di purezza recuperata dopo tanto inutile soffrire. Un soffrire che lo spettacolo ben descrive, nella fredda attesa della stazione (nel secondo atto), o nel duro lavoro della prigione (del terzo), dove è costretta a subire ogni tipo di umiliazione.
Ovviamente per realizzare tutto questo c’è bisogno di una protagonista d’eccezione, perché l’opera, dopo il suo apparire nel 1904, ebbe notevole diffusione e sempre grandi primedonne che l’hanno affrontata, da Mary Garden fino alla indimenticata Magda Olivero. Oggi la brava Anne Sophie Duprels, che è una artista moderna, ben se ne guarda da cedere alla tentazione di un protagonismo tutto esteriore, come ci si aspetterebbe da una eroina del melodramma verista, ma con asciutta drammaticità consegna un personaggio a tutto tondo e regge pure il peso vocale di una parte assai impegnativa, che richiede una vocalità dal percorso frastagliato, dove ai lirici patetismi e al rimpianto si affiancano accensioni drammatiche infuocate che richiedono solidità vocale e assoluto controllo del mezzo, che il soprano francese tutto sommato possiede, nonostante un timbro a tratti freddo e aspro, così da rendere piena giustizia espressiva all’arioso “Dio pietoso”, la pagina più nota dell’opera. Decisamente più incolore il Dimitri del tenore Matthew Vickers, la cui voce è troppo leggera per la parte ed ha pure scarsa proiezione sonora a causa di una emissione incerta. Bravo invece il Simonson del baritono Leon Kim, morbido ma anche ispirato nel fraseggio. Ben amalgamato, nel rendimento vocale e scenico, tutto il vasto comparto di ruoli minori (menzioni di merito per Francesca Di Sauro, Sofia Ivanowna, Romina Tomasoni, Matrena Pavlovna/Anna, Nadia Pirazzini, Una vecchia serva, Ana Victoria Pitts, Vera/La Korableva e Nicolò Ayroldi, Un impiegato della stazione) che rispondono puntualmente all’accurato percorso registico di uno spettacolo teatralmente avvincente.
La direzione di Francesco Lanzillotta, alla testa di una Orchestra del Maggio sempre di altissima qualità (il Coro è ben istruito da Lorenzo Fratini), è consapevole di quanto l’ordito orchestrale sia tessuto connettivo portante della drammaturgia dell’opera, nel flusso ininterrotto che la caratterizza, anzi ne descrive atmosfere e umori, stati d’animo e paure, come nell’atto della stazione (forse il più riuscito), quando la protagonista attende, in un gelo che quasi la immobilizza, lo sperato arrivo del suo amato in uno stato di prostrazione carico di angoscia. L’orchestra prende il sopravvento anche nell’atto della prigione, soprattutto nell’involo sinfonico dell’intermezzo orchestrale che segue all’appello delle detenute. Lanzillotta ne coglie il respiro, lo carica di pathos emotivo e comprende come il sinfonismo di Alfano sappia far convivere accese effusioni liriche di marcata ricercatezza espressiva con oasi strumentali raffinate, le prime colte forse meglio delle seconde, ma sempre con un pieno controllo del palcoscenico.
In definitiva, ritorno sulle scene assai gradito di un’opera che conferma come il teatro musicale di Alfano abbia quell’importanza forse non valorizzata come meriterebbe un compositore sul quale pesa l’ingiusta condanna storica di esser stato colui al quale venne affidato il compito di completare l’incompiuta Turandot di Puccini. Il suo percorso artistico, a partire da Risurrezione, che è una delle sue prime partiture, ebbe ben altra importanza nel contribuire ad offrire un rinnovato volto al melodramma italiano del Novecento.
Foto di Michele Monasta.
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