Come in un film di cappa e spada
Torna al Teatro alla Scala Roméo et Juliette di Gounod nell’allestimento di Bartlett Sher. Protagonisti d’eccezione Vittorio Grigolo e Diana Damrau. Dirige il giovane Lorenzo Viotti.
Ad apertura del nuovo anno torna sul palcoscenico del Teatro alla Scala l’allestimento di Roméo et Juliette di Gounod che il regista americano Bartlett Sher pensò nel 2008 per la Felsenreitschule di Salisburgo, dove vennero utilizzate, come spazi scenici, le file di arcate scavate nella roccia che sono parte integrante dell’antica Cavallerizza di corte della città austriaca, ovviamente non ricostruibili a grandezza naturale sul palcoscenico scaligero. Ecco perché questo spettacolo, già visto alla Scala nel 2011, che presenta un monumentale contenitore scenico fisso in stile rinascimentale classicheggiante ideato per l’occasione da Michael Yeargan, con facciate di palazzi a loggiati e una colonna con capitello corinzio, ha sfalsato l’idea originaria, quasi appesantendola nella visione d’insieme hollywoodiana che oscilla fra il tradizionale e ciò che è luogo comune ritenere parte dell’italico folclore, richiamato attraverso citazioni pittoriche e quant’altro. L’allestimento, nel frattempo divenuto proprietà del Metropolitan di New York, si sbizzarrisce nella varietà stilistica di costumi (a firma Catherine Zuber) prevalentemente settecenteschi e nel taglio movimentato e teatrale di una regia assai cinematografica. Il clima da film di cappa e spada, che strizza l’occhio al cinema e al musical, risente della formazione e dell’attività stessa di un regista che conosce bene i palcoscenici di Broadway ed è assai quotato nel teatro shakespeariano. La regia dello spettacolo è ripresa puntualmente da Dan Rigazzi.
Veniamo alla parte musicale. Una bella sorpresa è il debutto in un’opera sul palcoscenico scaligero del giovane Lorenzo Viotti, la cui bacchetta, già internazionalmente affermata, conferma le qualità di un direttore che ha un sicuro controllo del palcoscenico. Lo dimostra nelle scene di festa e di massa, come nel magnifico concertato dell’esilio che chiude il terzo atto, che fanno da contorno al clima dei duetti d’amore fra i due giovani, alle loro effusioni affettive avvolte in quell’emozionale dimensione onirica che rende così singolare, secondo il pensiero musicale di Gounod, la tragedia shakespeariana adattandola agli stilemi del “drame lyrique”, genere che rivoluzionò l’estetica dell’opera francese di quel tempo, anteponendo alla spettacolarità del “grand-opéra” sentimenti di matrice più intima, quasi borghese, che avranno sviluppi futuri nella produzione di Jules Massenet. Per questo, forse, una maggiore cura alle tinte liriche e sfumate non avrebbe guastato, come in passato hanno dimostrato di saper ben fare i grandi maestri della tradizione francese abili nell’esaltare il meglio di quest’opera (si pensi a Michel Plasson), ma è innegabile che il suo esordio sul palcoscenico scaligero sia stato più che positivo.
Cast di prestigio, con due protagonisti d’eccezione: Vittorio Grigolo e Diana Damrau. Il noto tenore, ormai fra i più importanti oggi al mondo, torna a vestire sul palcoscenico scaligero i panni di Roméo a nove anni di distanza, sempre con risultati degni di una fama che si è incrementata nel tempo. Prevalgono certo i meriti di una voce sonora e di bel timbro, spavalda in acuto e capace anche di sfumare i suoni, seppure certe mezze voci siano in odor di falsetto e necessitino di maggior rotondità e levigatezza di suono. C’è poi il fascino di una presenza scenica magnetica, che fa di lui un Roméo ardentemente appassionato oltre che scattante e atletico, che non teme, nella scena del balcone, di arrampicarsi con agilità sulla parete del palazzo per arrivare a toccare la mano della sua Giulietta, o di maneggiare la spada in duello come fosse Errol Flynn. All’esuberanza vocale e scenica, a tratti compiaciuta e di innegabile effetto, non si accompagna la necessaria quadratura stilistica che lo renda un tenore francese a tutto tondo, anche quando la declamazione di “Salut! tombeau”, ad apertura dell’ultimo atto, domanderebbe maggior attenzione alla parola e una scolpitezza di accenti più aulica. Insomma un tenore con i fiocchi, ma non – ed è qui che sta la differenza – uno stilista del canto francese; stile che ha regole tutte sue, che vanno rispettate se si intende divenire interpreti di riferimento in questo repertorio.
Diana Damrau resta una Juliette artisticamente efficacissima per la dimensione fresca con la quale caratterizza il personaggio, con quella femminilità mai fanciullescamente liliale e virginea ma a fibrillazione emotiva accentuata, così da renderlo per nulla scontato, forte di una personalità sempre ben connotata. Peccato che la voce abbia perso gli armonici dei tempi migliori e il timbro si sia alquanto infeltrito. Nel valzer non è precisissima nelle fioriture e nell’aria del veleno del quarto atto piuttosto affaticata e senza l’involo lirico richiesto, eppure alla fine convince, perché le resta, sempre e comunque, il carisma della grande cantante ed il temperamento interpretativo della vera attrice.
Nei ruoli di contorno, che tanta importanza hanno nell’economia dell’opera, se segnalano le prove dello splendido Mercutio di Mattia Olivieri, giovanile e vocalmente disinvolto, che intona con flessibilità espressiva la ballata della Regina Mab, così come efficacissima appare lo Stéphano di Marina Viotti, che cesella con eleganza e souplesse la deliziosa “chanson” del terzo atto. Di altro profilo artistico e scolpito con incisività di accenti il Frère Laurent di Nicolas Testé, ottimo il Tybalt di Ruzil Gatin, addirittura un lusso la Gertrude ben caratterizzata e di timbro vocale prezioso di Sara Mingardo e un po’ ruvido il Capulet di Frédéric Caton. Funzionali tutti gli altri, a partire da Le Duc de Vérone di Jean-Vincent Blot, fino a Edwin Fardini, Pâris, Paolo Nevi, Benvolio e Paul Grant, Grégorio, gli ultimi due ultimi allievi della Accademia del Teatro alla Scala.
Scala stracolma di pubblico per il Turno A del 30 gennaio e festosi applausi per tutti.
Foto Brescia & Amisano.
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