Il simbolismo cosmico di “Tristan und Isolde”
L’opera di Wagner apre con successo la stagione del Teatro Comunale di Bologna.
C’è una componente che mai dovrebbe mancare ad un allestimento di Tristan und Isolde di Richard Wagner: il desiderio di “celebrare” l’anelito all’eterno naufragio nell’immensità indistinta della notte. Si deve percepire quel senso di solitudine che pervade le anime dei due amanti, unite carnalmente pur restando nella sostanza estranee perché proiettate nella rarefatta cosmicità di un amore che non guarda all’appagamento del sentimento sensuale, bensì al suo annullamento attraverso la redenzione della morte che li libera dall’affanno della passione e li ricongiunge, trasfigurati, fuori da ogni concezione umana. L’immagine dello spettacolo deve pertanto far riflettere su questa indefinitezza, avvolgerla nelle nebbie di un inconscio che soffre per l’impossibilità di liberarsi dalla “tortura” del desiderio, dalla maledizione del filtro che costringe, loro malgrado, i due protagonisti ad amarsi e a cercare riposo dall’angoscia dell’implacabile passione che li attanaglia con la pace della morte, come afferma Tristano stesso, in un “divino, eterno, primordiale oblio!”. Se pertanto lo spettacolo punta troppo sul realismo e sul versante umano, ignorando le essenziali implicazioni metafisiche, sbaglia bersaglio e sacrifica la dimensione cosmica di questa sofferenza romantica ma decadente, malata ed onirica, stretta secondo il pensiero di Nietzsche da un ineguagliabile “senso di dolce e spaventevole infinità”.
In qualche modo l’allestimento di Tristan und Isolde che ha aperto la stagione del Teatro Comunale di Bologna risponde a queste caratteristiche, pur eccedendo talvolta sul piano del simbolismo. A firmarlo è il regista tedesco Ralf Pleger, con scene dello scultore, pittore e scenografo, anche lui tedesco, Alexander Polzin, mentre i costumi sono di Wojciech Dziedzic. Il filtro d’amore – lo si spiega nelle note di regia – è come una droga che conduce i due innamorati in un mondo parallelo, che diventa improvvisamente incantato, accompagnandoli in un viaggio dell’estasi, in una dimensione quasi magica che lo spettacolo da subito intende descrivere. Così avviene nel primo atto, con gigantesche stalattiti che scendono pian piano dall’alto in un ambiente indefinito, con pareti a specchio, bel lontano dal sembrare la nave dove Isotta viaggia alla volta della Cornovaglia. Nel secondo, in modalità ancor più astratta, con un’installazione di rami animati che sembrano simbolicamente commentare lo stato amoroso interiore più che sensoriale dei due amanti. Infine, nell’ultimo, si persegue l’indefinitezza che li avvolge nel progressivo annullamento verso quella sorta di condanna che consuma la felicità, realizzabile solo nel non essere. Ecco perché lo spettacolo coglie nel simbolismo la componente filosofica dell’opera, estremizzata nel terzo atto, quando cilindri di luce escono da una parete forata da cerchi di diverso diametro e, attraverso un magistrale disegno di luci, danno l’immagine di un mondo cosmico o della mente più che reale.
Se lo spettacolo realizza tutto questo, la bacchetta di Juraj Valčuha, dal podio dell’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, in buona forma nonostante qualche imprecisione negli attacchi, vira invece verso una direzione più “terrena” che introspettiva; cerca un suono denso più che rarefatto, attraverso tempi piuttosto veloci ed equilibri accorti nelle sonorità, sempre controllate, eppure meno morbide e misteriosamente oniriche nella ricerca di quell’effluvio strumentale che sembra più compitato che realmente sentito e interpretato con illuminante profondità di intenti espressivi. Un Wagner, dunque, tecnicamente sicuro, ma forse non ancora del tutto sentito e metabolizzato dall’ormai affermatissimo direttore slovacco.
Cast di tutto rispetto. Il soprano danese Ann Petersen non presenta problemi vocali di sorta, è sicura in acuto e la voce risuona bene nella sala assai acustica del Comunale. Non regala, nel finale, una morte e trasfigurazione trascendentale, perché alla voce non corrisponde pari profondità espressiva, ma canta senza lasciare quei segni di stanchezza che invece il Tristan di Stefan Vinke mostra nel primo atto. Tuttavia il tenore tedesco si riprende via via nel corso della serata e nel terzo atto arriva a risolvere l’impervio delirio con una sicurezza che ad inizio di serata non avremmo immaginato, finendo per virare l’ago della bilancia della sua prova verso il segno positivo. Ekaterina Gubanova è una eccellente Brangäne, vocalmente davvero significativa per ampiezza e densità di mezzi vocali, la migliore del cast fino a quando in scena entra Albert Dohmen, un Re Marke che sul versante sia interpretativo che vocale giganteggia nel monologo del secondo atto, al quale dona quella dolente rassegnazione e personalità che l’esperienza nel ruolo gli garantisce e lo fa ancora essere, dopo anni di ininterrotta militanza come cantante wagneriano, un punto di riferimento per questa parte. Eccellente Martin Gantner, Kurwenal, validi Tommaso Caramia, Melot e Un pilota e Klodjan Kaçani, Un giovane marinaio.
C’è una notizia, assai positiva, che corona il successo riscosso da questo spettacolo inaugurale, ed è che il Teatro Comunale annuncia, attraverso il suo sovrintendente Fulvio Macciardi, che con Tristan un Isolde inizia un ciclo di proposte wagneriane che mira, nel corso delle stagioni a venire, a proporre tutte le cinque opere di Wagner che ebbero la loro prime italiane a Bologna. Nel 2021 si celebreranno i 150 anni della prima di Lohengrin. Nel 2022 sarà la volta di Parsifal, cui seguiranno Tannhäuser e Der fliegende Holländer. Un progetto che fa onore al Teatro Comunale e al suo glorioso passato.
Foto di Rocco Casaluci.
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