Una notte al museo

Un buon cast salva il deludente allestimento de Il trovatore di Verdi al Teatro alla Scala.

Il soggetto del Il trovatore di Verdi è già di per sé tortuoso, ambientato in un medioevo oscuro e ferrigno, di trovatori, uomini d’arme, streghe e ardenti amori romantici. Non è opera facile da mettere in scena, perché si può scadere nel banale, oppure arrovellarsi alla ricerca di sottointesi che rendono lo svolgimento della misteriosa trama ancor più complesso. L’allestimento in coproduzione col Festival di Salisburgo in scena in questi giorni al Teatro alla Scala, firmato dalla regia di Alvis Hermanis, non aiuta in tal senso, anzi complica la situazione fino a renderla incomprensibile e completamente avulsa dal contesto del libretto di Salvatore Cammarano.

Il sottotitolo dell’opera parrebbe diventare, almeno secondo il pensiero di chi firma lo spettacolo, una notte al museo; il regista, con le scene da lui stesso firmate insieme a Uta Gruber-Ballehr e con i costumi di Eva Dessecker, pensa di ambientarla nella pinacoteca di un museo, con innumerevoli quadri d’autore esposti. Si comincia con Ferrando che mostra ad una comitiva di turisti la vicenda contestualizzandola indicando dei dipinti. Poi, al calar della sera, i personaggi si animano e quelli che di giorno erano gli inservienti divengono protagonisti della vicenda. All’inizio tutto parrebbe chiaro, poi il filo della matassa narrativa si perde per strada, la regia latita e tutto si riduce ad un continuo e confuso susseguirsi di pannelli che si spostano scomponendosi e ricomponendosi a scacchiera, disegnando ambienti dove domina il color rosso pompeiano. E dire che la Scala aveva in repertorio il magnifico allestimento di Hugo De Hana, bastava riprendere quello evitando di ricorrere ad un regista che sembra amare poco questo repertorio, e lo aveva già dimostrato pochi anni fa in un altrettanto poco felice messa in scena scaligera de I due Foscari.  

Dimenticata la parte visiva, quella musicale si appoggia sulle solide spalle di Nicola Luisotti, che alla testa della magnifica orchestra scaligera e dell’altrettanto splendido coro istruito da Bruno Casoni regala una concertazione di bel respiro melodico, intensa e avvolgente. Si ammirano l’attenzione alla integralità dell’opera, proposta con tutti i da capo delle cabalette, gli accompagnamenti carichi di denso spessore ed il giusto equilibrio nel declinare le espansioni liriche con gli accenti più vividi e, all’occorrenza, infuocati, così da prestare la dovuta cura al disegno ad una cantabilità morbida ed insieme accesa, ma soprattutto rendendo il discorso sonoro sempre teatralmente avvincente.

Il cast, pur con alti e bassi, è soddisfacente. Su tutti spicca il Manrico di Francesco Meli, che ormai è di casa alla Scala, dopo il trionfo ottenuto come Cavaradossi nella Tosca che ha aperto la stagione in corso e, prima ancora, con le passate prove verdiane in Don Carlo ed Ernani. Se si desidera da lui quello che nell’immaginario collettivo tutti si aspettano per Manrico si finisce col rimanere a bocca asciutta. Meli regala una “pira” tutto sommato piuttosto spenta, la abbassa di tono e nelle puntature acute non ha lo squillo e l’eroismo richiesti. Insomma non entusiasma con una vocalità che punti ad un canto muscoloso e tutto d’impeto, da tenore espada. All’opposto, gioca di cesello e, secondo un rinnovato approccio stilistico alla vocalità verdiana, che oggi sembra aver preso piede a favore di un linea vocale più lirica, rispetta fedelmente i segni d’espressione e cerca un canto sfumato e levigato, un fraseggio capace di illuminare la componente nobile e cavalleresca del personaggio, in una parola quella più ottocentesca, per stile e approccio interpretativo. Si ascolta un “Ah sì, ben mio” cantato con commosso trasporto ma al tempo stesso con eleganza, finezza e ricercatezza nel donare al cantabile quelle intenzioni che rendono il suo canto sempre ispirato e consapevole, giocando quindi sull’incisività degli accenti e sulla rotondità dei suoni. Così avviene sempre, a conferma di quanto il cantar d’amore su frasi patetiche che richiamano la vocazione poetica trovadorica aiutino il personaggio ad acquistare la sua reale dimensione espressiva, che non è a senso unico, ma unisce all’eroismo anche la componente sognante ed estatica. Ed ecco, ad esempio, un “Riposa, o madre” colmo di rassicurante dolcezza. 

Il resto del cast non è così espressivamente consapevole, ma schiera nomi di tutto rispetto. Si ricordava il soprano Liudmyla Monastyrska come voce di tonnellaggio superiore. In questa occasione, come Leonora, l’emissione sembra afflitta da un vibrato che si è accentuato fino rendere la voce non sempre uniforme e assottigliatasi nel volume, oltre ad evidenziare una scarsa propensione al virtuosismo della cabaletta del primo atto ed a quello più teso e drammatico di “Tu vedrai che amore in terra”. Gioca al meglio le sue carte in un “D’amor sull’ali rosee” dove sfoggia qualche trillo ben abbozzato e, soprattutto, si impegna a contenere il più possibile il suono e a sfumarlo. È più che altro un tentativo, che approda a risultati non definitivi, ma tali da chiudere il cerchio di una prova nel complesso ammirevole. 

Violeta Urmana, dopo esser partita come mezzosoprano è passata a ruoli sopranili ed oggi torna sui suoi passi iniziali per vestire i panni di Azucena. Sembra però che il baricentro della voce sia un po’ perso per strada, o almeno non sia più facilmente individuabile, ma la voce resta solida e ferma, soprattutto in acuto. Restano insomma i meriti di una cantante che riesce ancora a mostrare una sostanziale tenuta del ruolo, senza tuttavia lasciare un segno scenico indelebile nel tratteggiare l’immagine del personaggio, prigioniero di un incubo terribile, la cui personalità contraddittoria è pervasa di tensione drammatica e talvolta da visioni che lo pongono sempre in bilico fra stati di lucidità e vaneggiamento, e che pertanto richiederebbero maggior approfondimento, sia scenico che espressivo. 

Al baritono Massimo Cavalletti non difettano bella voce e qualità vocali che, ancora una volta, non sono sostenute da una tecnica adeguata. Insomma, il materiale di base è quello giusto per Il Conte di Luna, ma gli affanni in acuto e la capacità di sostenere il legato e la tessitura acuta del “Il balen del suo sorriso” lo mettono duramente alla prova.

Mirabile il solido e sonoro Ferrando del basso Gianluca Buratto, buone le prove dei ruoli di contorno, con Hun Kim, Un messo e tre giovani allievi della Accademia del Teatro alla Scala, Caterina Piva, Ines, Taras Prysiazhniuk, Ruiz e Giorgi Lomiseli, Un Vecchio Zingaro.

Successo per tutti e pubblico numeroso per la quinta delle nove recite in cartellone.

Foto Brescia e Amisano.

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