Adriano Olivetti, a 60 anni dalla morte.

Sessanta anni fa, in uno scompartimento del treno Milano-Losanna, moriva improvvisamente, a soli 59 anni, Adriano Olivetti. Era alla guida dell’azienda di famiglia, fondata dal padre ai primi del Novecento ma, soprattutto era un capitano d’industria che concepiva il proprio ruolo in modo diverso dalla larga parte della classe imprenditoriale. Riteneva cioè che l’impresa, prima di un conglomerato produttivo volto alla ricerca del profitto, fosse una comunità umana, dove al centro dovessero sempre collocarsi le persone che vi lavorano.

Da qui il suo incessante impegno per valorizzare l’apporto dei lavoratori, coinvolgendoli, per quanto possibile, nell’organizzazione aziendale. Idee innovative che, come spesso accade in questi casi, gli alienarono le simpatie del mondo industriale senza ottenere il plauso dei sindacati o dei settori progressisti della politica. Nata ai primi del secolo, ed insediata ad Ivrea, la Olivetti aveva molte frecce al suo arco per essere innovativa, a cominciare da un prodotto, le macchine per scrivere e le calcolatrici, che stava rivoluzionando il lavoro d’ufficio.

L’azienda puntò quindi su ricerca e progettazione e certo questo furono gli elemento che favorirono l’instaurarsi di un diverso clima lavorativo, rispetto alle industrie più tradizionali. Molti decenni prima che fosse addirittura coniato il termine di responsabilità sociale di impresa (di cui oggi troppo spesso ci si sciacqua inutilmente la bocca), Olivetti fu un precursore di questo approccio. Mise in piedi una fabbrica che poneva la persona davvero al centro del processo produttivo e che, oltre a nuovi sistemi organizzativi, fu dotata di servizi d’avanguardia, all’epoca del tutto sconosciuti alle altre imprese dell’epoca. Negli stabilimenti di Ivrea c’erano la mensa, l’asilo, la biblioteca. Il tutto secondo un modello inclusivo attento alle esigenze dei lavoratori.

Olivetti, impregnato di un socialismo umanitario, riteneva che il lavoro umano dovesse sempre avere il primato sul capitale e che dunque i lavoratori, indipendentemente dal loro livello gerarchico, fossero la vera ricchezza dell’impresa. Quella eporediese fu un’impresa che seppe anche interessarsi del proprio territorio, divenendo uno snodo di crescita civile oltre che economica. Una partecipazione alla vita cittadina che si concretizzerà nella realizzazione, già negli anni Trenta, di un villaggio per i dipendenti con abitazioni incastonate in ampi spazi verdi, sul modello già allora in voga nei Paesi nordici.

Certo, accanto alle luci non mancarono le ombre. Difficili furono i rapporti con la politica, scontando sia la diffidenza della Dc che l’avversione del Pci. Lo scudo crociato intravedendo in quell’esperienza imprenditoriale un vago sapore protestante, estraneo alla nostra cultura. I comunisti, legati alla lotta di classe, parlando di semplice paternalismo. Eppure, a ben pensarci, quella di Olivetti altro non era che la ricerca di una terza via tra capitalismo e socialismo, del tutto in linea con la Dottrina sociale della Chiesa.

Alla sua morte questa originale visione culturale perse rapidamente di quota e di lì a pochi anni nell’azienda di Ivrea non si parlerà più quel linguaggio. A sessanta anni di distanza dalla morte di Olivetti resta però intatto il valore di quell’esperienza che continua ad affascinare. Di certo il capitalismo liberista, basato sulla finanza e sulla compressione dei diritti dei lavoratori ha il fiato corto, non riuscendo neanche più a sostenere la crescita economica.

Serve un deciso ripensamento. Il profitto non va demonizzato, tutt’altro, ma deve innestarsi in un orizzonte di lungo termine, vincendo l’ossessione del breve, a volte immediato periodo. E non si può immaginare, in un universo produttivo tanto complesso ed articolato, dove si chiedono competenze sempre più affinate, di continuare a ritenere i lavoratori un costo da ridurre il più possibile e non invece i protagonisti del sistema economico stesso. La lezione di Adriano Olivetti – un uomo straordinario, capace di pensare in grande – ci aiuta insomma a riflettere su questi temi. Oggi, più ancora che ai suoi tempi, di cogente attualità.

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