Hosni Mubarak, l’ultimo Faraone

Se ne è andato in punta dei piedi, nemmeno i giornali gli hanno dedicato qualcosa più di poche righe, eppure per tre decenni è stato il capo di uno Stato, l’Egitto, nazione leader del Medio Oriente. Stiamo parlando di Hosni Mubarak, scomparso la scorsa settimana a 91 anni, a nove, giorno più giorno meno, dalla sua destituzione sull’onda di quella Primavera araba che aveva investito anche Il Cairo. Fu la vittima, se vogliamo, più illustre di quella stagione che suscitò molte attese, di maggior libertà e democrazia, andate per lo più deluse.

Mubarak lasciò per l’appunto il potere dinanzi all’ormai insostenibile pressione della piazza, abbandonato persino dalla casta militare, dalle cui fila pure proveniva. Alla testa del Paese era giunto nell’ottobre del 1981 in seguito all’assassinio di Anwar Sadat, l’uomo di Camp David, di cui da alcuni anni era il vice. Pressochè sconosciuto all’estero, Mubarak per gli egiziani era una sorta di eroe nazionale, essendo stato nel 1973 nella guerra del Kippur contro Israele, a capo delle forze aeree. Di lì a poco seppe però abilmente ritagliarsi un certo ruolo sulla scena internazionale, come fedele alleato dell’Occidente e pronto a seguire le orme di Sadat, nei confronti dello Stato ebraico.

Nel 1991 durante la guerra del Golfo schierò l’Egitto a fianco della grande coalizione allestita contro l’Irak di Saddam Hussein, colpevole di aver invaso il Kuwait. Non fu invece della partita, e fece bene, nell’altra guerra, quella del 2003 che gli Stati Uniti scatenarono sull’onda dell’11 settembre, ritenendo che Saddam disponesse di armi nucleari. In politica interna puntò su un robusto intervento statale nell’economia. Promosse diverse opere pubbliche nell’intento di rendere fertili alcune aree desertiche, per dar sfogo ad una popolazione sempre crescente che per i suoi nove decimi vive abbarbicata sulle rive del Nilo. Al suo attivo anche l’impulso per la realizzazione della grande biblioteca di Alessandria, vero gioiello dal punto di vista architettonico.

Fu eletto alla presidenza per diversi successivi mandati: competizioni elettorali svolte senza veri avversari, in un Paese – come ha mostrato ampiamente il tragico caso di Giulio Regeni – assai lontano dai normali standard democratici cui siamo abituati in Occidente. La repressione del dissenso fu un suo abituale metodo di governo, giustificata, e in parte era vero, dalla necessità di contenere l’integralismo islamico pronto a prendere il sopravvento. Nulla comunque lasciava presagire la fine del suo regime. Poi ci si mise di mezzo la crisi economica creando aumenti di prezzo di molti generi di prima necessità. A far traboccare il vaso del malcontento vi fu anche la sua improvvida pretesa di imporre il figlio come suo successore: decisione che rianimò d’un colpo tutte le opposizioni.

Il risultato fu, ai primi del 2011, l’accendersi di una vasta protesta popolare che finì per travolgerlo. Resta da chiedersi perchè gli Stati Uniti, sempre solleciti a correre in aiuto a qualsiasi alleato, lo lasciarono cadere di colpo, aprendo le porte al fondamentalismo, anziché sostenerlo imponendogli magari qualche apertura riformatrice. Ma forse dopo trenta anni di potere, il logorio era ormai irrimediabile. Poche settimane dopo la caduta, Mubarak fu trascinato in prigione e i nuovi governanti lo condannarono addirittura a morte, sentenza poi tramutata in carcere perpetuo. Una fine tutto sommato amara per un leader non certo peggiore dei suoi successori.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.