Zona rossa
L’Italia è passata dal Tricolore al monocolore. Accantonati il bianco e il verde, tutta la penisola è diventata rossa. Zona Rossa, per l’esattezza. Ovvero il massimo livello di allerta e contenimento, nel tentativo di arginare o perlomeno diluire l’aumento dei casi della sindrome nota come Covid-19, (acronimo da Corona VIrus Disease 19), la malattia causata dal nuovo Coronavirus denominato SARS-CoV-2. Un contagio che serpeggia ormai per l’intero pianeta – tanto che l’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato lo stato di Pandemia, ovvero epidemia globale – e che ha colpito con particolare virulenza il nostro Paese.
La malattia è stata identificata ai primi di gennaio 2020 a Wuhan, città cinese pressoché sconosciuta in Occidente prima di diventare il focolaio originale del contagio globale. I primi casi registrati riguardavano in particolare lavoratori del locale mercato del pesce, dove si commerciano anche animali vivi, possibili vettori del virus, rivelatosi particolarmente contagioso e con un alto grado di patogenicità, ovvero la capacità di arrecare danno all’organismo. E in effetti i primi due casi di pazienti affetti dal morbo identificati in Italia (il 30 gennaio) riguardavano cittadini cinesi in visita nel nostro Paese.
Ma ben presto si è sviluppato anche da noi un focolaio che, partendo da alcune provincie lombarde, ha iniziato a espandersi rapidamente. Il 21 febbraio vengono registrati 16 casi, il giorno seguente sono già 60 e in poco tempo arrivano i primi decessi, a conferma della gravità della patologia. Le zone interessate vengono isolate dal resto del Paese, impedendo i movimenti di persone in entrata e uscita, salvo quelli specificamente autorizzati per urgenze, rifornimenti e simili.
In questo modo, si spera di contenere il contagio in una zona circoscritta, ma presto ci si accorge che è una speranza vana. In pochi giorni il virus si espande su tutta la Lombardia, parte del Veneto e dell’Emilia Romagna, sconfina in Piemonte, compare in alcune provincie nemmeno confinanti. Basta una comitiva in gita, un viaggio di lavoro, un contatto casuale per diffondere il contagio, che viaggia con progressione geometrica: il numero delle persone risultate positive raddoppia all’incirca ogni due giorni e mezzo, mentre parallelamente cresce la percentuale di pazienti che necessitano di ricovero ospedaliero o addirittura del trasferimento in terapia intensiva. Una progressione che fa immediatamente capire che le strutture ospedaliere potrebbero arrivare al collasso, per carenza di personale e mancanza di posti letto, in particolare nei reparti di rianimazione.
È a questo punto che si mette in moto una poderosa riorganizzazione del sistema ospedaliero, con lo smantellamento di interi reparti per fare posto a nuove unità di terapia intensiva. Vengono sospesi tutti gli interventi e le visite non urgenti, mentre l’intero sistema si appresta a fronteggiare l’ondata di contagi, riconvertendo il personale in servizio, richiamando i pensionati, assumendo giovani specializzandi. In poche parole, il Governo appronta un piano per affrontare la più grave minaccia per il nostro Paese dopo la Seconda Guerra Mondiale.
E fra le strategie adottate per combattere la Covid-19, la più importante è senz’altro quella che fa leva sulla prevenzione, limitando le occasioni di contagio per impedire al virus di diffondersi. È in quest’ottica che si arriva, appunto, a dichiarare l’intera Italia “Zona Rossa”, decisione drastica e senza precedenti, ma necessaria, anzi indispensabile. Le conseguenze per la popolazione sono pesanti: ridotta possibilità di movimento, difficoltà per gli approvvigionamenti, innumerevoli rinunce.
Eppure, gli italiani, o perlomeno la stragrande maggioranza, hanno accettato queste imposizioni con una disciplina e un senso di responsabilità impensabili, per quella che è l’immagine stereotipata dell’italiano medio, insofferente alle regole e convinto di poter fare tutto ciò che gli fa comodo. Una adesione alle direttive frutto in buona parte della consapevolezza della gravità della situazione e del timore di venire contagiati, ma anche delle modalità con le quali il Governo è arrivato ad adottare questa decisione estrema.
Perché fin dall’inizio l’Esecutivo ha lavorato discretamente bene, cercando di minimizzare gli interventi di contenimento per non arrecare troppo disagio alle persone e danno all’economia, cercando di tenere un certo equilibrio nelle decisioni e approntando nel frattempo la macchina organizzativa destinata a fronteggiare le conseguenze del contagio. Sempre con un tono e una misura tesi a non creare il panico, ma tali da far capire che la situazione non veniva affatto sottovalutata.
Questo, mentre dall’altro lato una opposizione scomposta chiedeva tutto e il contrario di tutto, cavalcando i soliti temi di chiusura delle frontiere, colpe dell’Europa e via delirando. E mentre il mondo imprenditoriale si preoccupava più delle conseguenze economiche che di quelle sanitarie. Senza contare i soliti (per fortuna pochi) individui che, per interesse, ignoranza o protagonismo narcisistico, spargevano notizie fasulle, teorie strampalate, messaggi allucinati o, addirittura, cercavano di trarre profitto dalla drammatica situazione.
In mezzo a questo caos, il Governo è riuscito a mantenere la barra relativamente dritta, a parte qualche tentennamento e ritardo, fino alla decisione estrema di estendere il massimo livello di allerta a tutto il territorio nazionale. Una decisione evidentemente sofferta, ma adottata con consapevolezza, anche se certamente in parte “forzata” dal comportamento irresponsabile di qualcuno all’interno della Regione Lombardia che, diffondendo inopportunamente notizie su provvedimenti ancora in fase di discussione, ha provocato una fuga di massa da Milano e dintorni verso il Sud, con il rischio di espandere a macchia d’olio e in maniera esplosiva il contagio. Se questo sia avvenuto per dabbenaggine o con il preciso scopo di allontanare più persone possibile dalla Lombardia, per diminuire la pressione sul proprio sistema sanitario e scaricarlo su quelli delle altre Regioni, non sta a noi stabilirlo, piuttosto a qualche inchiesta giudiziaria, se mai si deciderà di indagare su una fuga di notizie dalle conseguenze potenzialmente disastrose.
Quello che conta è che a quel punto l’Esecutivo, con grande senso di responsabilità e anche una certa dose di coraggio, ha deciso di porre sotto un elevato grado di tutela e controllo l’intera nazione. E la Nazione ha risposto con altrettanta responsabilità, in maniera unitaria e solidale come da tempo non si vedeva in un Paese dominato da individualismo e recriminazioni.
Le città si sono svuotate di persone e automobili, ma non appaiono spettrali, piuttosto quiete. Le file davanti ai supermercati, con i clienti che attendono disciplinatamente il loro turno mantenendo la distanza di sicurezza, solo al primo sguardo ricordano quelle di sovietica memoria, causate dalla carenza di prodotti. Qui non c’è rischio di rimanere senza l’essenziale, bensì la consapevolezza che la necessità di evitare il contagio, per sé stessi e gli altri, vale bene il disagio di qualche minuto di attesa.
Il Governo, l’apparato mediatico, il Sistema Paese, nonostante errori inevitabili ed eccessi evitabili, alla fine hanno trovato una quadra fra la necessità imperativa di tagliare al virus la possibilità di diffondersi e quella di evitare il collasso socio-economico. Mentre si combatte l’epidemia, si portano avanti provvedimenti che tutelino le fasce deboli, i contagiati, i lavoratori costretti a fermarsi forzatamente.
Gli italiani hanno percepito tutto questo. Gli sforzi del Governo, della Protezione Civile, delle forze dell’ordine. E, soprattutto, l’impegno degli operatori del Sistema Sanitario Nazionale, bistrattati e colpevolizzati fino a non molto tempo fa, che hanno dato prova di una competenza e un’abnegazione fuori dal comune. I cittadini hanno capito che tutto ciò che si sta facendo è per la salvaguardia della loro salute e del loro benessere. E si sono riscoperti come un unico popolo, unito, solidale e consapevole, ben più di quanto fosse lecito sperare. Questa epidemia sarà dunque una prova dura e dolorosa, ma potremmo uscirne più forti di prima, con una compattezza e una determinazione che ci eravamo dimenticati di possedere.
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