Quarantena

L’Italia è in quarantena. Una misura estrema, ma necessaria, perché è il metodo più efficace per fermare un’epidemia.

È stato così nel 2003 per la SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) anch’essa partita dalla Cina per poi diffondersi in altri Paesi, tramite viaggiatori infetti che si spostavano in aereo verso le destinazioni più disparate. All’epoca, però, quando fu chiaro che in Cina c’era questo problema, vennero prese drastiche misure di contenimento a partire dagli aeroporti, dove i passeggeri a rischio venivano posti immediatamente in isolamento, per evitare il diffondersi del contagio. Grazie a queste misure di prevenzione, nonostante l’elevata virulenza la malattia si propagò in un numero limitato di Paesi. Questo consentì di contenere le vittime, sebbene la percentuale di mortalità fosse alta. Il bilancio finale della SARS parla di poco più di 8.000 contagiati in 17 Paesi, con oltre 700 decessi, quasi il 10% dei pazienti.

Con il nuovo Coronavirus purtroppo le misure di contenimento non sono state altrettanto stringenti. Nonostante la Commissione Sanitaria Municipale di Wuhan avesse segnalato già il 31 dicembre all’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) una serie  di casi sospetti di polmonite con cause ignote nella città e nell’intera provincia dell’Hubei, a livello mondiale nessuno ha pensato di approntare misure di prevenzione di livello elevato. Per questo motivo l’epidemia ha potuto dilagare ovunque, diventando pandemia. I dati ufficiali al 14 marzo indicavano una penetrazione in 140 Paesi, con oltre 152.000 contagiati e più di 5.000 morti. L’Italia è fra le nazioni più colpite, registrando alla stessa data quasi 17.000 contagi e oltre 1.400 vittime.

Da qui la necessità di mettere in quarantena tutto il territorio nazionale, obbligando la popolazione a stare chiusa in casa salvo esigenze primarie, una situazione impensabile fino a poche settimane fa. E probabilmente non è molto consolatorio pensare che la quarantena in un certo senso l’abbiamo inventata noi, visto che venne ideata nella Repubblica di Venezia all’epoca della Peste nera, quando le navi venivano costrette a rimanere al largo per 40 giorni prima di attraccare al porto, in modo da evitare lo sbarco di persone che potessero essere fonte di contagio. Da allora, il termine è rimasto quello, anche se il periodo si è ridotto, limitandosi al tempo di incubazione della malattia sotto osservazione.

Così oggi gli italiani si ritrovano forzatamente tappati in casa per una quindicina di giorni, salvo proroghe. Una situazione oggettivamente disagevole, che tuttavia, come tutte le crisi, riserva delle opportunità.

Per prima cosa, abbiamo capito l’importanza di avere un Sistema Sanitario pubblico efficiente. Nonostante da parecchi anni fosse in corso una precisa strategia di smantellamento della Sanità pubblica a favore di quella privata, con tagli a fondi, strutture e personale, all’arrivo del’epidemia la reazione è stata esemplare. Pronta riorganizzazione delle strutture per implementare le terapie intensive, individuazione delle priorità, introduzione di protocolli di cura mirati, anche se forzatamente sperimentali. E, su tutto, un impegno del personale sanitario ai limiti delle forze umane, con grande sacrificio sia in termini sanitari – molti i casi di contagio fra gli operatori – sia  personali, visto che i tempi di lavoro dilatati hanno certamente sottratto spazi agli affetti e alla vita familiare. Tutto questo mentre la risposta della sanità privata tardava parecchio ad arrivare. Se pensiamo che fino a poco tempo fa non era raro leggere di episodi di contestazioni, denunce o addirittura aggressioni al personale sanitario, ci rendiamo pienamente conto di come si sia ribaltata la situazione e di quale sia l’importanza del loro ruolo sociale. Da questa consapevolezza, che oggi si concretizza in piccoli gesti di solidarietà e riconoscenza spontanei, deve partire un processo di rafforzamento della Sanità pubblica, interrompendo la politica di tagli indiscriminati e sostituendola con nuovi investimenti in strutture, attrezzature e ricerca. E, soprattutto, garantendo un miglior trattamento economico e normativo agli operatori, a partire dagli infermieri.

Più in generale, si delinea la necessità di un nuovo rapporto fra pubblico e privato, perché per troppo tempo i servizi pubblici sono stati penalizzati per dimostrare che era meglio privatizzare tutto. Ma l’emergenza ci ha mostrato chiaramente che l’assistenza pubblica è fondamentale e non può essere sostituita da un sistema che mette al primo posto il profitto, anziché il benessere delle persone. Una lezione da tener presente anche finita l’emergenza.

Poi abbiamo scoperto che internet e canali social, troppo spesso usati per diffondere false notizie e messaggi d’odio, potevano invece servire per cose utili, come vedere e sentire i propri cari anche se a distanza, o provare a portare avanti la didattica a scuole chiuse. Soprattutto, con il telelavoro abbiamo scoperto che possiamo fare da casa moltissime cose che facevamo in ufficio, magari risparmiandoci ore e ore di trasferimenti da pendolari, su mezzi pubblici affollati o imbottigliati nel traffico. Per la cronaca, il ridimensionamento delle attività produttive e la drastica riduzione degli spostamenti e del traffico, hanno consentito un significativo abbattimento dei livelli di inquinamento proprio sulla pianura padana, quel “catino” sommerso di micro polveri e sostanze nocive che sembrava impossibile ripulire. Oggi, chi non è rimasto vittima del contagio respira meglio che nei mesi scorsi e ha meno rischi di incorrere in affezioni respiratorie causate dall’inquinamento. È evidente che sul lungo periodo non è possibile fermare tutto, ma questo dovrebbe farci riflettere sulla possibilità di fare le stesse cose in modo diverso, più sostenibile.

Però l’isolamento forzato ci ha fatto anche capire che i collegamenti virtuali non bastano, ci serve il calore umano. E abbiamo riscoperto la vita familiare, magari con qualche screzio per la vicinanza forzata e continua, ma con la consapevolezza di poter contare su una rete di sostegno. Una rete che uscendo dalle mura domestiche ci ha fatto ritrovare il senso di essere comunità, uniti nell’affrontare i problemi, con la riaffermazione della solidarietà al posto dell’individualismo che dominava nella società. Perché tutti hanno capito che nessuno può farcela da solo, individuo o nazione che sia.

Un sentimento che, paradossalmente, rafforza i legami proprio nel momento della segregazione forzata, e ci fa scoprire nuovi modi di stare insieme, a partire dai cori intonati nei cortili, dove ritorna protagonista l’Inno di Mameli, per lungo tempo bistrattato. Già, perché fra le molte cose che abbiamo ri-scoperto, c’è anche quella di essere una Nazione. L’emergenza reale del contagio ha spazzato via le residue pulsioni “indipendentiste” del lombardo-veneto, la zona al momento più colpita, restituendo al Governo centrale quel ruolo di guida che era stato troppo demandato alle regioni. In poche parole, gli italiani si sono ricordati di essere Italiani, con la “I” maiuscoli, ma non sovranisti, semplicemente patrioti, orgogliosi di noi stessi e del nostro splendido Paese. E questo, finita la crisi, sarà da un lato il presupposto per la ridefinizione dei rapporti fra Stato e amministrazioni decentrate, dall’altro ci lascerà la consapevolezza che l’unità e la solidarietà possono darci più forza di quella che pensavamo di avere per superare qualunque difficoltà e crisi.

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