L’importanza di chiamarsi Vittorio (Emanuele)
Le vicende di questi tempi sono talmente gravi, dalla diffusione del virus al dramma dei profughi siriani, solo per citarne due, che fanno passare in secondo piano altre notizie che, in tempi migliori, avrebbero avuto più attenzioni. Per concederci, nonostante tutto, un momento di relax, ne ricordiamo una che, forse, sarebbe passata comunque in cavalleria anche in tempi normali, trattandosi di un “bicentenario” soffocato dai più noti “centenari” che in quest’anno ricorrono.
Il 14 marzo 1820 nasceva a Torino, a Palazzo Carignano, quello che fu la sede del primo Parlamento italiano (ed ora ospita il Museo Nazionale del Risorgimento con la sua ampia biblioteca), Vittorio Emanuele (II) di Savoia, colui che sarebbe diventato il primo re dell’Italia unita. Lo strano rapporto che lega il nostro Paese con la sua storia nazionale ha fatto sì che la sua figura passasse dalla “retorica risorgimentale (il ‘Padre della Patria’) all’oblio attuale”, complici anche le gesta poco virtuose, a dir poco, della maggior parte dei suoi successori.
Essendo queste righe una sorta di sua breve commemorazione, ne tralasciamo i molti difetti e i suoi peccatucci mondani, per ricordare che lui fu il Savoia “migliore” a portare questo doppio nome. Infatti il suo antenato, Vittorio Emanuele I, ebbe la sorte di riavere indietro, dopo il turbine della Rivoluzione Francese e la lunga meteora napoleonica, un regno più grande di quello che gli aveva lasciato il fratello Carlo Emanuele IV, che abdicò in suo favore, ma egli non seppe sfruttare i sentimenti popolari favorevoli, che vedevano in lui il ripristino della normalità, tanto da edificare, in onore del suo ritorno, la splendida chiesa neoclassica torinese dedicata alla Gran Madre di Dio. Un suo fidato e devoto suddito, che lui non seppe adeguatamente apprezzare, così lo definiva, con una visione ottocentesca dell’autorità: «Dopo alcun tempo giunse a cavallo il Re. […] Porta veramente in fronte il carattere di fisonomia dei Principi di Savoia. La bontà e la sincerità si leggono nei suoi tratti, ma nulla di più. Un Re di debole capacità ha un solo mezzo di farsi riverire dalla sua armata ed è di presentarsi ai soldati dopo una giornata col cappello forato di palle nemiche. Mi smentiscano, se il ponno, tutti i prodi del mondo. Vittorio Emanuele, tu non sai, no, tu non sai regnare». Quel Vittorio, spaventato dall’evolversi della situazione del regno a seguito dei Moti rivoluzionari del 1821, che si svolsero proprio in marzo, non seppe assumersi le sue responsabilità, ma abdicò (vizio di famiglia) in favore del fratello Carlo Felice (detto “feroce”), che aprì una trista stagione di repressioni. Anche il terzo a portare lo stesso nome, dopo un discreto inizio di regno, ebbe gravi responsabilità e colpe immense, avallando di fatto la marcia su Roma del 1922, assecondando (promovendo?) la dittatura fascista, promulgando le famigerate legge razziali del ’38 e non opponendosi all’entrata in guerra nel ’40, come era invece nei suoi poteri, garantiti dallo Statuto Albertino, che era sempre in vigore. Anche lui abdicò, ma troppo tardi.
Vittorio Emanuele II, invece nel 1849, dopo l’abdicazione (tanto per cambiare) del padre Carlo Alberto sconfitto a Novara dagli austriaci, a soli diciannove anni si fece carico dei suoi obblighi di sovrano, non cancellò la costituzione e non ostacolò l’opera di rinnovamento del Piemonte che statisti cattolici e liberali come Balbo, Gioberti, D’Azeglio e soprattutto Cavour intrapresero. Nel 1859, pur nell’enfasi e nelle specifiche circostanze dell’epoca e, forse recitando un testo di Cavour “arrangiato” da Napoleone III, dichiarò di non essere: «insensibile al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi». Al di là del particolare momento storico risorgimentale in cui fu pronunciata quella frase, il fatto che un capo di uno Stato sia attento alle richieste del popolo, neanche oggi è così scontato, neppure nelle moderne democrazie.
Fatte queste considerazioni, ora resterebbe solo di ricordare chi fosse quel devoto suddito che descriveva il “primo” Vittorio, a circa duecento anni dalla bozza della sua più importante opera politica, pubblicata incompiuta solo cento anni fa, nel 1920, ma questa sarà un’altra storia.
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