Restate a casa…se potete
Dall’inizio della quarantena, imposta per rallentare l’espansione dell’epidemia Covid-19, risuona l’imperativo “state a casa”, declinato con infinite modalità. Giusto, giustissimo. Ma allora, dateci la possibilità di starci, a casa. Perché se dobbiamo uscire per andare a lavorare, a casa non ci possiamo stare.
Con le ultime disposizioni prese dal Governo, è stata imposta una nuova stretta che dovrebbe fermare le attività produttive, tranne quelle ritenute essenziali. Provvedimento doveroso, ma anche tardivo, che tuttavia è stato immediatamente contestato dalle associazioni imprenditoriali, con in testa Confindustria, evidentemente più preoccupate per il calo dei fatturati che per l’aumento dei contagi. Del resto, sentiamo da tempo le reiterate richieste di “aiuti” per la ripresa economica, con i soliti argomenti triti e ritriti: taglio delle tasse alle imprese e nuove infrastrutture, la ricetta proposta da trent’anni e di cui si vedono i risultati, con una crisi economica ultradecennale.
La verità è l’esatto opposto, come dimostra l’esperienza della Cina, primo Paese a confrontarsi con l’emergenza virus. Appena compresa la potenziale gravità del contagio, Pechino ha chiuso tutto, anche le attività produttive. E stiamo parlando di una nazione che è ormai diventata la “fabbrica del mondo”. Eppure si è deciso di fermare tutto e subito, perché si è capito che era il modo migliore per arginare la diffusione dell’epidemia e riportare la situazione sotto controllo nel più breve tempo possibile, per poi far ripartire l’economia.
Qui invece si è tergiversato a lungo, puntando l’attenzione su falsi obiettivi anziché sui problemi reali. L’esempio tipico è quello dei “runner”, le persone che andavano a correre, indicate come i nuovi “untori” e additate al pubblico ludibrio, nuove vittime dell’odio in rete. Questo, mentre restavano in produzione fabbriche di auto, produttori di mandrini o tipografie, roba che non è esattamente essenziale e urgente. Eppure, a rigor di logica, è molto più facile che il virus venga veicolato fra impiegati e operai che lavorano a distanza ravvicinata, piuttosto che da un tizio che corre da solo in un parco, o da quell’altro che porta il cane a spasso senza incrociare nessuno.
Nonostante ciò, ancora adesso si continua a puntare l’attenzione verso i pochissimi che si spostano violando irresponsabilmente le regole, piuttosto che verso i molti, troppi costretti a uscire perché devono andare a lavoro, sebbene non siano impiegati in settori essenziali.
La differenza è che in Cina – paese indubbiamente autoritario – tutto è sotto il ferreo controllo del Governo, comprese le industrie, mentre in Italia – nominalmente una democrazia – sono le industrie a dettare la linea al Governo. Per questo, come si diceva all’inizio, il nuovo decreto che impone lo stop alle lavorazioni non essenziali è arrivato così tardi e ancora troppo permissivo, suscitando tuttavia l’ennesima reazione contraria di Confindustria. Eppure da giorni i sindacati chiedevano, minacciando anche scioperi, di chiudere le fabbriche, vista l’oggettiva impossibilità di garantire le misure di sicurezza necessarie in molti ambienti di lavoro.
Ora – forse – questa svolta cruciale per la lotta all’epidemia verrà finalmente adottata, rendendo meno schizofrenica la politica di contenimento che obbligava le persone a stare chiuse in casa e i lavoratori a uscire, col rischio di contrarre il virus e traghettarlo in famiglia.
Tuttavia, l’azione dovrebbe essere ben più incisiva, a partire da una più precisa – e riduttiva – individuazione delle attività essenziali, che per esempio dovrebbe escludere la gran parte del settore metalmeccanico. Ma c’è un altro ambito sul quale occorrerebbe una stretta che invece è stata esplicitamente esclusa. Il Presidente del Consiglio ha infatti nuovamente ribadito che “verranno garantiti i servizi bancari, assicurativi e finanziari”, sulla cui “essenzialità” vale la pena approfondire.
Partiamo dalla finanza: in questo contesto apocalittico, le Borse di tutto il mondo restano aperte, anche se alcune delle società quotate sono paradossalmente chiuse. In questo scenario, non occorre essere fini economisti per capire che è la speculazione a farla da padrone, come dimostrano i rovinosi crolli registrati, con una serie di rimbalzi e nuovi cali che rendono i mercati estremamente nervosi e volatili, col rischio concreto di concentrare ancor più le capitalizzazioni a vantaggio di poche mani forti. A tal proposito, vale la pena ricordare che solo a partire dalla seduta del 18 marzo << la Consob ha introdotto un divieto alle posizioni nette corte (vendite allo scoperto e altre operazioni ribassiste)>>.
Tradotto, significa che fino a quel momento gli operatori finanziari potevano vendere un titolo che non possedevano, allo scopo di farne crollare la quotazione, per poi ricomprarlo a un prezzo nettamente più basso, speculando sulla differenza. Una tattica che, in momenti di panico come quello attuale, funziona a meraviglia, per gli squali della finanza. È chiaro che il provvedimento andava preso ben prima, se proprio ci si ostina a non chiudere le Borse, o almeno a ridurne l’attività con provvedimenti temporanei su orari e volumi di scambio.
E passando alle assicurazioni, rileviamo da una nota del sindacato di base Cub-Sallca che << Il settore assicurativo non è neppure compreso tra le attività soggette a limitazione del diritto di sciopero>>, come invece accade con i servizi appunto essenziali. Sempre dalla stessa fonte, che si occupa anche del Credito, rileviamo che << Nel settore bancario la prestazione garantita dalla normativa sul diritto di sciopero si limita all’apertura di un giorno alla settimana, il mercoledì.>>. Sono dunque comparti che potrebbero ridurre al minimo la loro operatività a contatto col pubblico, da un lato dirottandola sul lavoro da casa (si pensi all’attività di consulenza, già da tempo effettuabile anche a distanza), dall’altro minimizzando afflussi della clientela e presenze di personale in filiale.
Non dimentichiamo che negli scorsi anni le banche hanno dichiarato migliaia di esuberi e chiuso centinaia di punti operativi senza che nessuno si sognasse di accusarle di penalizzare un servizio pubblico. E infatti negli ultimi giorni l’operatività è stata drasticamente ridimensionata, ma il numero di filiali aperte e di addetti presenti potrebbe essere fortemente ridotto, specialmente tenendo conto dell’aumento dei casi di contagio fra il personale, evento che costringe a sottoporre a quarantena tutti i colleghi dell’agenzia dell’operatore risultato infetto e a (cercare di) rintracciare tutti i clienti con cui è venuto a contatto.
Sarebbe molto più sicuro chiudere tutto e deviare l’operatività sui canali automatici, ovviamente con congruo preavviso e con tutti gli accorgimenti del caso, ad esempio prevedendo la dilazione del pagamento delle cambiali e consentendo il prelievo di una quantità adeguata di contante prima della serrata. Provvedimento non facile, ma proprio per questo da studiare e programmare nel dettaglio. Come tutti gli altri, del resto.
Cosa che non sempre è avvenuta e avviene, fra indecisioni, ritardi ed errori che hanno punteggiato l’azione di Governo. Ma occorre fare un paio di considerazioni: primo, il nostro Paese è stato il primo in Europa a dover affrontare la peggior minaccia dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi, quasi che il virus avesse beffardamente voluto materializzare l’ossessivo slogan “prima gli italiani!”, a lungo scandito proprio nei territori dove sono esplosi i primi focolai…
Secondariamente, tutti gli altri Paesi europei, dopo essersi erroneamente ritenuti al sicuro, sottovalutando ancor più di noi la minaccia, hanno ripercorso esattamente i nostri passi, con provvedimenti che ricalcavano quelli intrapresi dal nostro esecutivo. Compresi i negazionisti a oltranza, come il britannico Boris Johnson e il presidente Usa Donald Trump, che dopo una serie di affermazioni irresponsabili, hanno dovuto arrendersi all’evidenza dei fatti e mettere in atto le stesse nostre azioni per salvaguardare i loro concittadini.
Dunque, stiamo pure a casa, per togliere al virus le occasioni per propagarsi. Ma vediamo di starci (quasi) tutti, anche a costo di assestare un duro colpo all’economia. Prima pensiamo a salvare la pelle, poi ci occuperemo della ripresa, magari privilegiando le produzioni a chilometro zero, in modo da limitare gli spostamenti e ridurre l’eventualità di contagi “di ritorno” dall’estero, da quei Paesi entrati dopo di noi nel vortice del contagio e che ne usciranno dopo, secondo la parabola epidemica che stiamo già vedendo in Cina.
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