“Whatever it costs” (costi quello che costi)

Naturalmente si arriva alla resa dei conti con situazioni molto diverse. L’impatto sul P.i.l. italiano potrebbe tradursi in un calo del 5% per il 2020, a seconda del periodo che si prevede possa durare lo stop alle attività. Un blocco alle attività produttive protratto fino alla fine di aprile potrebbe “costare” 275 miliardi di euro; un prolungarsi del funzionamento a singhiozzo di 6/9 mesi potrebbe superare i 600 miliardi di perdita del P.i.l. L’affermazione del presidente di Confindustria Vincenzo Boccia (“perderemo 100 miliardi al mese”), che ha fatto gridare allo scandalo, è in realtà persino prudente.

Sono cifre che danno l’immagine di una catastrofe, della cui dimensione, soltanto, è possibile nutrire dubbi.

Per mantenere in piedi le attività economiche anche “dopo” e la struttura sociale nel “durante” (tramite c.i.g. e ammortizzatori sociali) sono stati sinora stanziati 25 miliardi per il mese di marzo, e si ipotizza cifra analoga per aprile, ma si teme che sarà necessario molto di più. La sospensione del patto di stabilità dovrebbe consentirci di salire oltre i parametri attuali (dal 135% al 144% del pil, ma si parla già della necessità di avventurarci fino al 160% aprendo scenari “alla greca”). Visto che nessuno ci regala niente, è solo autorizzazione a contrarre nuovo debito, che alla fine ci troveremo a soddisfare con un’economia molto più provata. E c’è da sperare che lo spread non aumenti, come è avvenuto nella settimana più drammatica, tra la conferenza stampa della Lagarde e la comunicazione successiva del piano BCE.

Per avere un termine di paragone , la Germania parte dal 60% nel rapporto debito/pil e conta di arrivare al 75%, mettendo in pista 1000 miliardi di euro (comprese le garanzie pubbliche su prestiti privati), la Francia impegnerà (con lo stesso criterio) 300 miliardi, l’U.K 350 miliardi di sterline, la Spagna 100 miliardi. Gli altri paesi possono indebitarsi di più perché partono messi meglio, ma tutti avranno conseguenze serie: il fermo del settore auto, che in Francia e Germania non è affatto secondario, potrebbe provocare la perdita di 14 milioni di addetti complessivi a livello globale, secondo una prima stima.

Per noi la realtà sarà in ogni caso molto dura.

La chiave di volta di fronte a questa straordinaria evenienza è ben riassunta dal cambio di paradigma tra Draghi e Lagarde. Mentre Draghi nel luglio 2012 ha salvato l’euro con la frase “whatever it takes” (faremo tutto il necessario) il motto attuale della BCE è “whatever it costs” (costi quello che costi). Ci voleva il coronavirus per sospendere il patto di stabilità… E’ evidente che tutto dovrà essere ripensato quando l’emergenza sarà finita (e sarà possibile fare una conta dei danni). Ma le divisioni che sono emerse in ambito U.E. nelle ultime ore fanno presagire scenari davvero inediti, e più devastanti del previsto. La lettera inviata al Consiglio Europeo da 9 paesi (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda, Slovenia, Belgio e Lussemburgo) che chiedono di affrontare l’emergenza in modo radicalmente diverso dal passato ha suscitato una secca risposta negativa da parte del fronte nordico (Germania, Austria, Olanda e Finlandia, in testa). I paesi “postulanti” rappresentano 212 milioni di europei (64% dell’eurozona) e 7.800 miliardi di euro di Pil (il 57% dell’eurozona), ma anche il 77% dei contagiati di tutta l’Eurozona. La richiesta di mutualizzare il debito ed emettere eurobond, oppure almeno consentire l’intervento del MES (Meccanismo europeo di stabilità) per salvare i paesi sull’orlo del baratro “senza condizionalità” (cioè senza la feroce austerità imposta dalla troika alla Grecia), è stata algidamente respinta dal blocco teutonico. Adesso nei prossimi 10 giorni vedremo se lo strappo sarà consumato fino in fondo e se, come effetto collaterale del coronavirus, assisteremo anche alla disintegrazione dell’Unione Europea!

E’ scoppiato in Europa il caso Draghi, cioè il deflagrante intervento dell’ex-governatore BCE sul Financial Times, in cui si chiede di fare, subito e senza limiti, tutto il debito che serve per tenere a galla l’economia privata, investita “senza colpa” da una pandemia di proporzioni bibliche. Mentre noi ci gingilliamo con le nostre incrostazioni ideologiche, il massimo custode del capitale, pragmatico all’estremo, dice quello che neanche noi abbiamo mai osato immaginare. Manca solo la ciliegina finale della socializzazione della proprietà, e poi ci siamo. Ma queste cose se le può permettere adesso, che non ha più cariche pubbliche: vedremo cosa farà in pratica, quando sostituirà Conte come uomo della provvidenza, esperto in economia, per traghettare il paese nel dopo-virus…

Anche a livello globale c’è un importante cambio di linguaggio e di cultura sottostante: dopo gli attentati terroristici alle torri gemelle, il mantra era “facciamo tutto come prima, senza lasciarci modificare lo stile di vita”; adesso invece tutti hanno chiaro che non si potrà ricominciare come prima, come se nulla fosse successo (dai rischi dei cambiamenti climatici, alla riconversione energetica, dalla gestione dei rischi da pandemia, alla connessione delle catene produttive, dall’inefficacia delle politiche monetarie, al ruolo dello stato nella gestione della cosa pubblica).

Ci sono meno spazi per gli strumenti già provati. Ad esempio nel 2008 ci si poteva illudere che fossero gli eccessi della finanza ad aver schiantato l’economia reale: abbassando i tassi a zero, partendo da +3% o +4% punti dell’epoca, si sarebbe rimessa in moto la macchina. Ora i tassi sono già a zero da tempo, lo strumento è inefficace e serve la politica fiscale, che però deve liberarsi dai vincoli e dai parametri ordo-liberisti (impresa quanto mai ardua nell’Europa di Maastricht, mentre invece negli Usa sono decisamente più spregiudicati e in Cina è normale pianificare consumi e investimenti). Inoltre la crescente diseguaglianza dell’ultimo decennio ha posto il problema della ripartizione delle risorse: non si sfugge alla necessità di ricostruire una redistribuzione sociale della ricchezza che tenga conto di interessi più generali.

Gli ultimi 10 anni hanno visto emergere un equilibrio multipolare, nella gestione delle sfere di influenza, ed una crescita economica poderosa della Cina, che è salita di peso sia sul lato della domanda che sul lato dell’offerta. Questa è una crisi su entrambi i fronti: denuncia le strozzature dell’offerta (legate alle supply chains che partono dall’Oriente), ma anche il collasso della domanda (se la recessione priva centinaia di milioni di persone delle risorse per vivere).

Occorre un coordinamento delle politiche globali che nessuno sembra in grado di garantire. Lo scontro sui dazi che ha preceduto l’esplosione del contagio poteva ancora essere interpretato come un semplice passaggio tattico da campagna elettorale, per garantire la rielezione di Trump e poi rinegoziare i termini dello scambio in continuità con la storia precedente. Ora invece la faccenda del protezionismo si pone in termini totalmente diversi e la ricostruzione necessaria, dopo la distruzione dell’economia mondiale provocata dalla sospensione delle attività, per contenere la pandemia, richiederà l’elaborazione di un nuovo paradigma. Una nuova Bretton Woods, una nuova leadership, un nuovo modello trainante, un sistema egemonico nuovo.

Chi ha dimostrato di saper controllare la diffusione del virus a Wuhan e nell’Hubei, pur ad un prezzo altissimo, sta già riavviando la catena produttiva ed ha già recuperato i livelli azionari del pre-epidemia. Mi sembra un buon punto di partenza per una candidatura a ruoli più importanti…

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