I singoli Paesi si muovono, l’Unione europa non ancora

Ammonta a ben 400 miliardi, il 22 per cento del nostro Pil (1.800 miliardi), la formidabile potenza di fuoco messa in opera dal Governo per contrastare l’emergenza economica che sta accompagnando il Coronavirus. Una somma, ha spiegato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, suddivisa in due fette da 200: una per il mercato interno e l’altra rivolta alle esportazioni, cui si aggiungono la sospensione per due mesi dei pagamenti (imposte, contributi, ecc..) e il rafforzamento dei poteri di controllo dello Stato nei settori strategici.

Le garanzie copriranno fino al 25 per cento del fatturato o fino a due volte il corso del lavoro, a patto che non ci siano licenziamenti o delocalizzazioni. Per le piccole e medie imprese (fino a 500 dipendenti), la garanzia sarà del 100 per cento in caso di i finanziamenti sino a 25mila euro; del 90 più 10 in quota Confidi per somme fino a 800mila euro e, infine, del 90 fino a 5milioni. Unico importo del 90 per cento per le grandi imprese. Riguardo ai poteri di controllo (o golden power) viene decisa una loro estensione a tutti i settori considerati strategici quali credito, assicurazioni, risorse idriche, salute e sicurezza. Essi scatteranno automaticamente in presenza di eventuali acquisizioni di almeno il 10 per cento del capitale. In pratica, almeno si spera, la fine di quel liberismo predatorio che troppe volte ha mandato a rotoli aziende e posti di lavoro.

Con questo decreto il Governo avvia dunque un insieme di misure che anticipano quelle connesse alla protezione sociale, previste per metà aprile, per fronteggiare il dopo Coronavirus. Anche se, almeno per ora, siamo ancora al “prima” ed è bene quindi non allentare la presa sul fronte del confinamento.

Anche in Europa ci si muove con altrettanta lena. La Francia mette sul tavolo 300 miliardi (12,5 per cento del Pil) per una serie di garanzie sui crediti concessi alle imprese, iniettando liquidità nel sistema economico. In Germania ci si muove con 800 miliardi, e qui siamo al 25 per cento del Pil, con un fondo di stabilizzazione economica e la Banca di sviluppo pubblica (la Cassa depositi e prestiti tedesca). Il tutto a sostegno delle imprese colpite dalla crisi, non escludendo che qualche grande azienda in crisi possa essere nazionalizzata. Di cento miliardi (8 per cento del Pil), infine, il pacchetto disposto dalla Spagna, secondo un duplice canale creditizio, non dissimile dal nostro, a favore di piccole e medie imprese, da un lato, e grandi, dall’altro.

Come si vede, i diversi Paesi europei stanno adottando misure grosso modo comparabili per contenere gli effetti economici e sociali della crisi che stiamo attraversando. Misure costose per agevolare la ripresa dopo il crollo di tutte le economie del vecchio continente, paragonabile soltanto a quello avvenuto negli anni della Seconda guerra mondiale. Misure che, ovviamente, aumenteranno a dismisura il debito pubblico di tutti i Paesi e che, pertanto, diverrà un problema generalizzato.

Ed è in questo quadro che sta proseguendo il dibattito o, per meglio dire, il braccio di ferro all’interno dell’Unione tra chi punta agli eurobond e chi li ritiene deleteri per il rischio di condivisione del debito pubblico. Evidente però che il Mes, il meccanismo salva Stati, oggi non è più il dispositivo adeguato, in quanto pensato per difficoltà economiche passeggere e non certo per una crisi strutturale estesa a tutta l’Europa e che colpisce il mondo intero.

Nuovi scenari, completamente diversi da prima, ci attendono e le regole dovranno per forza essere diverse. Proprio questo aspetto dovrebbe far riflettere chi si ostina a respingere, in qualsiasi forma, gli eurobond. Siamo di fronte ad un contesto decisamente nuovo e straordinario che richiede soluzioni nuove ed altrettanto straordinarie. Dire che la sopravvivenza dell’Unione dipende dalla sua capacità di darsi una governance unita e solidale può sembrare un’esagerazione. Ma è la pura realtà.

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