La “maledizione” della Brexit
Leggenda vuole che la “maledizione di Tutankhamon” colpisse tutti coloro che avevano osato turbare il sonno del Faraone. Semplici dicerie, naturalmente, nate dalla prematura morte di Lord Carnarvon, finanziatore della spedizione, scomparso a soli 57 anni, pochi mesi dopo la scoperta archeologica. Un caso, come si dice di un evento isolato, mentre due eventi collegati possono essere una coincidenza. Tre indizi, invece, fanno una prova. O almeno così si dice.
Passando da questa premessa fra il serio e il faceto, a qualcosa di estremamente concreto, analizziamo gli effetti della “Brexit” sui suoi sostenitori. Non per provare l’esistenza di improbabili “maledizioni”, ma per valutare le fortune politiche dei leader che ne hanno fatto una bandiera, a partire dall’ex premier David Cameron, colui che per primo lanciò l’idea di un referendum popolare per promuovere l’uscita dall’UE.
Eletto per la prima volta Premier nel 2010, Cameron viene riconfermato nel 2015 con un risultato superiore al precedente, che gli consente di ottenere la maggioranza assoluta e di formare un governo monocolore conservatore. Era dal 1900 che un Primo ministro non otteneva un numero di voti maggiore rispetto alla precedente elezione e, insieme a Margaret Thatcher, è stato l’unico a conquistare un numero di seggi più elevato dopo aver governato un’intera legislatura. Dunque, Cameron è un uomo all’apice del successo quando, per forzare la mano all’Unione Europea nelle trattative per rinegoziare gli accordi con il Regno Unito, minaccia di indire un referendum relativo alla permanenza britannica nell’UE.
Nonostante le trattative avessero soddisfatto in buona parte le richieste della Gran Bretagna, che già godeva di particolari deroghe all’interno dell’UE, il referendum viene comunque indetto, ma a quel punto Cameron si schiera a favore della permanenza nell’Unione, nonostante in precedenza avesse espresso una posizione molto critica nei confronti dell’UE. Al contrario, Nigel Farage, a capo del Partito per l’Indipendenza del Regno Unito, si schiera per la fuoriuscita dall’UE e vede aumentare di molto la sua popolarità.
Come noto, l’esito referendario del 2016 premia i fautori della “Brexit”, la fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Europa unita. A fronte di questo risultato, Cameron, l’uomo che all’apice del suo mandato aveva concesso il referendum ai cittadini britannici, rassegna le dimissioni e sostanzialmente scompare dalla scena politica. Quanto al suo avversario Farage, al culmine del successo per la vittoria referendaria, si dimette da leader del partito indipendentista e si ritira a vita privata per un paio d’anni, come se fosse stato sconfitto anche lui.
A quel punto, la palla passa a Theresa May, che assume la guida del partito conservatore e del governo, con il proposito di portare a compimento la procedura per l’uscita dall’UE. Dopo essere stata riconfermata da una nuova tornata elettorale nel 2017, la May porta avanti le trattative con l’UE per alcuni anni senza arrivare a un accordo, e il 24 maggio 2019 annuncia a sua volta le dimissioni. Dopo Cameron e Farage, diventa la terza “vittima” della Brexit. In senso politico, naturalmente.
Arriva quindi il turno di Boris Johnson, che conquista a larga maggioranza la leadership del partito conservatore e riceve l’incarico di Primo ministro, con la promessa di attuare la Brexit a tutti i costi, anche “no deal”, ovvero senza un accordo negoziato con l’UE, tanta è la smania di sganciarsi dall’Europa.
Un atteggiamento che il premier, inizialmente, mantiene anche all’arrivo dell’epidemia Covid-19. Mentre nell’Europa continentale le altre nazioni, quale più quale meno, mettono in atto strategie di contenimento del contagio basate sul distanziamento sociale, Johnson va completamente controcorrente: seguendo le indicazioni del suo consigliere scientifico, sir Patrick Vallance, decide di non prendere provvedimenti, lasciando che il virus contagi il 60% della popolazione del Regno Unito, in modo da stimolare una risposta immunitaria che dovrebbe garantire lo sviluppo della cosiddetta “immunità di gregge”, ovvero quella che si ottiene quando una larga fetta di popolazione è immune a una determinata malattia.
Una decisione che sconcerta la comunità scientifica e gli altri Paesi, ma che viene portata avanti fino a quando il contagio non inizia a farsi strada rapidamente in Gran Bretagna, provocando le prime vittime.
Non è dato sapere se, a quel punto, qualche altro consulente scientifico abbia fatto notare al premier che il 60% della popolazione voleva dire oltre 40 milioni di persone il che, stimando una percentuale di decessi pari anche solo al 3% dei contagiati, significava almeno un milione di morti. Questo presupponendo che le strutture sanitarie fossero in grado di salvaguardare quel 5-10% di pazienti che statisticamente necessita di terapie intensive, ovvero fra i due e i quattro milioni di persone da ricoverare. Un carico insostenibile per qualunque sistema sanitario nazionale , anche ipotizzando ottimisticamente di dimezzare queste cifre. Dunque, potenzialmente un’ecatombe.
A fronte di ciò, il premier ha innestato la retromarcia, decidendo di adottare una strategia che ricalcava quella dei Paesi colpiti in precedenza, Italia in testa. Un colpevole ritardo, che ha rischiato di essergli fatale in prima persona, perché nel frattempo Johnson stesso aveva contratto il virus, sviluppando la malattia in forma così acuta da richiedere il ricovero in terapia intensiva e costringerlo a passare provvisoriamente l’incarico a un suo ministro. Per fortuna, dopo qualche giorno è stato dimesso, ma per sua stessa ammissione se l’è vista brutta, tanto che ha ringraziato i sanitari per avergli salvato la vita.
Questo ovviamente non significa che esista una “maledizione della Brexit” che perseguita i politici, ma dimostra che chi cerca in tutti i modi di indebolire la coesione internazionale finisce per indebolire sé stesso e il proprio Paese. È successo – politicamente – a chi ha preceduto Johnson al governo, mentre a lui stava per andare molto peggio, solo per il fatto di non aver voluto adottare le stesse politiche messe in atto dagli altri Paesi europei. Un “distinguo” che rischiava di essergli fatale, ma il destino ha voluto concedergli una seconda possibilità. Può darsi che dopo questa brutta esperienza Johnson inizi a vedere le cose sotto una prospettiva differente. Per intanto, anche la Gran Bretagna ha deciso di adottare severe misure di quarantena, come buona parte dell’Europa.
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