Ricostruire il Paese in modo sostenibile

Mentre l’epidemia Covid-19 è ancora in corso, sono molte le voci che si levano a chiedere una ripartenza delle attività produttive, per evitare che il danno economico, già rilevante, diventi irreparabile. Rivendicazioni legittime, ma occorre tener conto che, se non si riparte applicando rigorosi protocolli per garantire la sicurezza dei lavoratori, si rischia una seconda ondata di contagi, potenzialmente altrettanto devastante. Un problema complesso, nel quale occorrerà privilegiare l’opinione degli esperti sanitari, piuttosto che le pur condivisibili ragioni dell’imprenditoria.

C’è poi un’altra questione rilevante di cui tenere conto, cioè che avrebbe poco senso tentare di ripartire supportando un modello economico che aveva già mostrato evidenti criticità ben prima della comparsa del virus che ha costretto l’intero Paese in quarantena. Sono centinaia le fabbriche che hanno chiuso i battenti negli ultimi anni, in modo definitivo o tenendo i lavoratori sospesi nel limbo degli ammortizzatori sociali. Ma la crisi ha colpito praticamente tutti i comparti.

Prendiamo in esame il settore dell’edilizia e delle costruzioni, da tempo in sofferenza: per garantirne la ripresa in modo sostenibile e duraturo, occorre rivedere profondamente le logiche con cui si è proceduto finora, perché il modello portato avanti negli ultimi decenni sta mostrando tutti i suoi limiti, tant’è vero che già da tempo è gravato da una crisi profonda. Vediamo qualche dato.

L’ISTAT ha stimato che nel nostro Paese ci sono oltre 7 milioni di abitazioni non utilizzate, 700 mila capannoni dismessi, 500 mila negozi vuoti, 55 mila immobili confiscati alle mafie. A fronte di un tale patrimonio immobiliare inutilizzato, con un Paese che non cresce né dal punto di vista demografico, né da quello produttivo, non ha senso continuare a costruire. Eppure negli ultimi anni non si è fatto altro, arrivando all’inevitabile effetto di avere un’offerta ridondante rispetto alla domanda. Uno scenario prevedibile, ma del quale non si è tenuto conto, sull’onda dell’euforia “cementifera” che tuttora pervade il Paese. La logica conseguenza è che molte imprese edili si sono ritrovate a dover fare i conti con un’alta percentuale di invenduto, in costruzione o finito che fosse, il che ha determinato un’ondata di fallimenti, con relative insolvenze nei confronti delle banche che avevano improvvidamente fornito linee di credito spesso rilevanti.

I crediti deteriorati del settore edilizio rappresentano ben il 41,7% del totale delle sofferenze bancarie. A fronte di ciò, gli istituti di credito si sono ritrovati “in pancia” anche moltissimi immobili, acquisiti a parziale rimborso dei prestiti non esigibili. Immobili che sono andati a sommarsi a quelli che le banche avevano già pignorato ai titolari di mutuo non più in grado di far fronte alle scadenze di pagamento. A fronte di tutte queste acquisizioni, alcune banche hanno aperto un settore immobiliare nel tentativo di valorizzare questo patrimonio, ma con scarso successo.

Tutto ciò mentre sul territorio sono presenti innumerevoli edifici vetusti che andrebbero ristrutturati e riqualificati, con evidente beneficio non solo sul lato estetico, ma anche su quello funzionale ed economico. Se iniziassimo una seria opera di recupero del patrimonio immobiliare su tutto il territorio nazionale, implementando e agevolando gli incentivi per l’edilizia, potremmo garantire un numero di posti di lavoro ben superiore rispetto a quelli impiegabili in nuove costruzioni di dubbia utilità. Oltretutto, con notevoli ritorni economici sul medio-lungo periodo. Si pensi ai risparmi ottenibili in termini energetici grazie a edifici coibentati e alimentati da energie rinnovabili. Ma ancor più, pensiamo al vantaggio di avere finalmente un congruo numero di edifici in grado di resistere ai terremoti, in un Paese a elevato rischio sismico come il nostro, dove troppo spesso, accanto ai danni materiali, dobbiamo anche contare un inaccettabile numero di vittime. E discorso analogo può essere fatto per i rischi idrogeologici, da frane e alluvioni.

Altro aspetto ineludibile è quello relativo al consumo di suolo, che deve essere semplicemente azzerato. Pochi si rendono conto, infatti, che il suolo, oltre a essere un bene comune e una risorsa essenziale al pari di aria e acqua, non è rinnovabile. Una volta che è stato compromesso, cementificando o asfaltando, non è sufficiente rimuovere la copertura per riportarlo alla sua naturalità. Il suolo non è semplicemente terriccio minerale, ma un humus vitale, che contiene miliardi di organismi, un quarto della biodiversità del pianeta. Per ricostituire appena un centimetro di spessore di questo microcosmo occorrono secoli (!) di processi naturali, addirittura millenni per ottenere uno strato utilizzabile a fini agricoli.

Negli ultimi cinquanta anni abbiamo cancellato questa risorsa al ritmo medio di 6/7 metri quadrati al secondo, per una superficie complessiva pari a quella dell’Emilia Romagna. In gran parte, si trattava di terreno fertile, sottratto all’agricoltura, tanto che oggi l’Italia è in grado di produrre solo più l’80% del proprio fabbisogno alimentare, rispetto al 92% di trent’anni fa, il che ha aumentato la nostra dipendenza dalle importazioni. Senza contare la perdita in termini di servizi “ecosistemici”, quali ad esempio il contenimento di eventi alluvionali, il ripristino delle falde idriche, il sequestro di carbonio dall’atmosfera, la mitigazione climatica, eccetera.

Insomma, una risorsa preziosa, che non può essere cancellata per far posto a “nuove infrastrutture”, come recitano le ricette economiche improntate alla crescita che hanno dettato legge negli ultimi anni. Piuttosto, anche qui, la via da seguire sarebbe quella della manutenzione delle infrastrutture esistenti, prima di ritrovarci a contare altre vittime di tragedie come quella del ponte Morandi di Genova o quella recente – per fortuna solo sfiorata – del ponte di Aulla.

Per questo l’annuncio del presidente Conte, che ha dichiarato fra l’altro che «sarà cruciale superare le rigidità strutturali che hanno impedito di dispiegare tutto il potenziale del Paese, ad esempio nel settore dell’edilizia e delle opere pubbliche» va guardato con la dovuta attenzione. Come ha fatto il Forum nazionale Salviamo il paesaggio, che ha scritto al premier non solo per rimarcare la necessità di tutelare il suolo evitando nuove cementificazioni, ma portando una serie di proposte che, se attuate, potrebbero creare migliaia di posti di lavoro sostenibili. Abbiamo già citato la riqualificazione degli edifici e la manutenzione delle infrastrutture esistenti, ma a queste si aggiungono: il recupero di borghi e centri storici in abbandono; la riconversione di aree industriali dismesse; la messa in sicurezza del territorio; il ripristino delle reti idriche “colabrodo”; la bonifica delle aree inquinate e altro ancora. Ce n’è abbastanza da fornire un apporto fondamentale alla ripresa del Paese una volta superata l’emergenza sanitaria.

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