Fase uno e mezzo
Ormai i titoli di giornali e tv non aprono più sui numeri del contagio. L’attenzione è tutta rivolta verso la “Fase 2”, quella della ripartenza. Perché tutti sentono la necessità, l’urgenza, la smania di tornare a produrre. Perché il Paese, si dice, ha voglia di tornare alla “normalità”.
Ma siamo proprio sicuri?
In primo luogo, bisognerebbe evitare attentamente che con la ripartenza delle attività produttive non ripartano anche i contagi, come sta avvenendo là dove già si è provato ad avviare la “Fase 2”, anche se con numeri per ora sotto controllo. Ma su questo, il Governo ci sembra molto prudente: per una volta, possiamo contare su un Esecutivo che ascolta gli scienziati e applica il principio di precauzione, invece di farsi condizionare dalle pressioni di Confindustria e simili. E ci piace pensare che lo faccia soprattutto perché ha a cuore la salute di noi cittadini, e non soltanto perché si rende conto che una nuova ripresa dell’epidemia – con conseguente nuova quarantena forzata – sarebbe un colpo mortale per l’economia.
Ma soprattutto, siamo proprio sicuri di voler tornare alla normalità? Cioè tornare a quello che c’era prima?
Questi giorni di limbo surreale potrebbero in effetti averci obnubilato la memoria, ma tutti dovremmo ricordarci cosa fosse la “normalità” di qualche mese fa: crisi, disoccupazione, debito pubblico in crescita, tagli, sacrifici per la stragrande maggioranza di noi. E, sullo sfondo, ma sempre più incombenti, inquinamento, surriscaldamento globale, cambiamento climatico, perdita della biodiversità, minaccia di estinzione di massa delle specie, compresa la nostra. Senza dimenticare che, come denunciato da molti esperti con prove alla mano, questa pandemia è stata causata proprio dal nostro modello di sviluppo, in particolare dalla deforestazione legata alle produzioni agricole destinate a fornire mangimi per gli allevamenti industriali. È proprio da li che è partito il virus SARS-CoV-2 responsabile dell’attuale pandemia, esattamente come avvenuto con altre zoonosi (malattie di origine animale) prima di lui.
Ecco, forse sarebbe bene non tornare a quella “normalità”, ma provare a sfruttare questa crisi, destinata a segnare una cesura netta fra un “prima” e un “dopo”, per dare una svolta decisiva al nostro modello di sviluppo, rendendolo finalmente davvero più sostenibile, anche se ciò significherà indubbiamente produrre uno sforzo enorme per riconvertire produzioni e lavoratori, sapendo che qualcosa dovrà essere messo da parte.
Certo, ci sarà sicuramente chi si straccerà le vesti perché qualche migliaio di lavoratori potrebbe perdere il lavoro a causa della “rivoluzione verde” dell’economia, ma saranno in buona parte gli stessi che hanno ampiamente giustificato il sacrificio di decine di migliaia di posti di lavoro in nome della competitività, del mercato, della globalizzazione … in una parola, dei profitti.
Del resto, questi momenti traumatici si sono presentati molte volte nella storia: l’avvento dei lumi a petrolio ha affossato il commercio dell’olio di balena, l’invenzione della lampadina ha lasciato senza lavoro i produttori di candele, l’arrivo dell’automobile ha tolto il lavoro ai vetturini delle carrozze e via dicendo. Ma non si stavano diminuendo i posti di lavoro, semplicemente si sostituivano con altri lavori. Ciò che veramente ha cancellato posti di lavoro in Italia sono state le riduzioni forzose di personale attuate da molte aziende per aumentare i profitti e le delocalizzazioni verso Paesi con costi di produzione più bassi, ma soprattutto è stata – e sarà sempre di più – l’automazione.
L’errore più grande che possiamo commettere in questa fase di ripartenza è tentare a tutti i costi di ripristinare ciò che c’era prima, sprecando milioni di euro per tenere in piedi un sistema economico già traballante perché obsoleto e insostenibile. Ciò che occorre fare invece è investire seguendo nuove linee di sviluppo, che portino effettivo progresso e benessere, anziché sterile “crescita” numerica, a partire da quella del Pil, indice di misura idolatrato dagli economisti, ma inadeguato per valutare le reali condizioni di vita di una Nazione.
Nelle prossime settimane cercheremo di ampliare il discorso entrando nel dettaglio e portando esempi di quella economia alternativa, sostenibile e resiliente che può fornirci modi e mezzi per uscire dalla crisi in modo rapido e duraturo. Per ora ci limitiamo a un paio di considerazioni.
Innanzitutto, nonostante la narrazione in termini bellici che se ne è fatta, ricordiamoci che questa non è una guerra, è un’epidemia. Sono innumerevoli e insistenti le voci che chiedono di togliere vincoli e azzerare le procedure per poter cominciare subito a costruire, per dare impulso all’edilizia. Ma questo poteva avere un senso nel dopoguerra del secondo conflitto mondiale, in un’Italia rasa al suolo da bombe e cannonate, dove case, fabbriche, ponti e strade erano ridotti in macerie. Oggi le costruzioni sono intatte, ma le macerie rischiamo di essere noi.
Quindi ciò che occorre veramente è una politica – ma soprattutto un’economia – che rimetta al centro la persona, garantendo nuovamente uno stato sociale degno di tale nome, a partire dalla Sanità pubblica, di cui abbiamo capito la centralità strategica e ineludibile. Occorre riprendere ad assumere personale medico, infermieristico e ausiliario, creando migliaia di posti di lavoro veri, orientati alla cura e al benessere di una popolazione che invecchia sempre di più.
Discorso analogo sul versante opposto dal punto di vista generazionale, quello dei bambini e ragazzi, con interventi straordinari in ambito scolastico, sia sulle strutture, sia sulla didattica. La necessità di mantenere le distanze in funzione anti-contagio può essere sfruttata per una colossale opera di ristrutturazione di un patrimonio edilizio ampiamente carente, approfittandone per riqualificare gli edifici dal punto di vista energetico e da quello degli spazi, prevedendo locali ampi dove collocare un massimo di una quindicina di studenti. Questo, oltre a fornire una quantità enorme di lavoro alle imprese edili, imporrà di avere un numero di classi maggiore, dunque anche una maggiore necessità di insegnanti. Se a questo aggiungessimo anche una profonda revisione dei programmi scolastici, con l’obbligo di frequenza fino a diciotto anni e l’aggiunta di materie da “spalmare” su un orario che preveda di arrivare al tempo pieno, avremmo davvero la possibilità di creare migliaia di posti di lavoro nella docenza e nei servizi ausiliari, a partire dalla ristorazione.
Certo, per fare questo occorrerebbero investimenti ingenti, che però potrebbero essere stornati da altri capitoli di spesa, per esempio da quelli della Difesa, gli unici rimasti indenni, anzi cresciuti, in questi anni di tagli. Una prospettiva improbabile, in un Paese che in tempo di quarantena ha immediatamente chiuso scuole, musei, teatri e tutto quanto avesse a che fare col settore “cultura”, ma ha tenuto costantemente in attività le industrie belliche, evidentemente ritenute necessarie quanto il comparto alimentare o la logistica. Ma, appunto, questa crisi drammatica e tranciante potrebbe essere l’occasione buona per invertire la rotta.
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