1° Maggio: lavoro, sviluppo, democrazia

Il Primo maggio, Festa dei lavoratori, quest’anno risente, come è ovvio, dei limiti imposti dal Coronavirus. Eppure, anche senza manifestazioni di piazza e momenti di incontro negli spazi pubblici, possiamo lo stesso cogliere l’occasione per riflettere sull’odierno mondo del lavoro, particolarmente toccato, sia quello autonomo sia quello dipendente, dalla crisi economica che si intreccia con i gravi problemi di più stretta natura sanitaria.

La ripartenza è prossima, anche se saranno necessarie molte cautele, tra distanziamento sociale e dispositivi di protezione. Non ha alcun fondamento contrapporre salute e lavoro. Lavorare in sicurezza è un diritto ed è la prima questione da porre sul tappeto nel momento in cui si avvia la ripresa produttiva. In questo senso sono stati firmati dalle parti sociali specifici protocolli sulle modalità di svolgimento delle attività lavorative che andranno rispettati in tutto e per tutto. E qui si prospetta un interessante banco di prova per una collaborazione a tutto campo tra imprese e lavoratori. Allo stesso modo andranno estese le esperienze di telelavoro (o smart working) come modalità che possono permettere di decongestionare il sistema dei trasporti. Proprio nei momenti, come quello attuale, di ricostruzione del tessuto socio-economico possono venir gettare le basi per assetti innovativi anche dal punto di vista dell’organizzazione sociale.

Occorre, in generale, un vero e proprio cambio di rotta rispetto agli ultimi venti anni di progressivo svilimento del lavoro e di continuo arretramento dei diritti dei lavoratori. Basti pensare alla precarietà connessa al “working poor”: lavoro a basso salario con tutele quasi inesistenti. Emblematici, in tal senso, i cosiddetti riders, i fattorini impegnati, anche in questi giorni di pandemia, nelle consegne a domicilio. E’ giunto il momento di istituire un salario minimo obbligatorio per legge che faccia da soglia al di sotto della quale non si possa mai scendere.

C’è poi tutta l’area del sommerso, in diversi comparti produttivi ma soprattutto in agricoltura, dove forse, oggi, sarebbe opportuno pensare a regolarizzare quelle centinaia di migliaia di immigrati che operano come braccianti in nero in condizioni di lavoro ben al di sotto della decenza. Una situazione che si riscontra tanto nel Mezzogiorno quanto nel nord del Paese. Occorre dunque riorganizzare l’intera filiera produttiva fornendo alla mano d’opera impegnata nella raccolta agricola decenti condizioni di lavoro in termini salariali, previdenziali e logistici (perché queste persone hanno bisogno anche di poter alloggiare dignitosamente).

Il lavoro – ben lo sappiamo – è il fondamento dell’Italia repubblicana, come mostra il primo articolo della Costituzione, ma deve esserlo per davvero e non solo declamato a livello di principio. A quell’approdo giunsero, in Assemblea costituente, la cultura cattolica, nel segno della centralità della persona nel processo economico, e quella social-comunista, nel segno della liberazione della classe lavoratrice dallo sfruttamento capitalista.

Emerge nella Carta costituzionale non la vecchia visione liberale, tesa a ridurre il lavoro a mera obbligazione contrattuale da relegarsi nella sfera del diritto privato, ma una più ampia visione sociale, che accomunava cattolici e comunisti. Così, ad esempio, nell’art. 46, viene prefigurata la partecipazione dei lavoratori nella gestione dell’impresa e l’esperienza tedesca della cogestione mostra come l’ingresso del mondo del lavoro nella governance aziendale sia un elemento che accresce la competitività del sistema. Una volta per tutte, si tratta di comprendere che nella complessa sfida dello sviluppo, il lavoro è un decisivo fattore di crescita economica, sociale e civile.

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