I can’t breathe

Non posso respirare. I can’t breathe. Lo ha ripetuto più di una volta, George Floyd, rivolgendosi all’agente di polizia che gli comprimeva il collo con un ginocchio. Ha anche mormorato please, per favore, per fargli allentare la morsa, ma invano. L’uomo in divisa ha continuato a pressare Floyd, per oltre otto minuti, con la mano in tasca come se nulla fosse, incurante anche del fatto che a un certo punto avesse perso conoscenza. Nel frattempo, un altro agente teneva a distanza la folla che protestava per la brutalità dell’azione e documentava la scena riprendendola con i telefonini. L’uomo in stato d’arresto era a terra, immobile, inerme, tenuto fermo anche da altri due agenti. Non era necessaria l’ulteriore costrizione al collo, ma il poliziotto lo ha schiacciato lo stesso, per lunghi minuti, soffocandolo. Così, durante l’arresto, è morto George Floyd, afroamericano di Minneapolis, Minnesota. Sotto il ginocchio di Derek Chauvin, un poliziotto non nuovo ad azioni brutali, con diciotto denunce a carico.

Immediatamente è partita l’azione di depistaggio, con gli agenti che dichiaravano che Floyd aveva opposto resistenza, versione smentita da un video. Al tempo stesso, i responsabili dell’autopsia escludevano l’asfissia come causa di morte, indicando la presenza di “patologie pregresse”. Un copione già visto, anche perché negli Stati Uniti episodi del genere purtroppo non sono rari. Nel 2014 a New York un altro afroamericano, Eric Garner, pronunciò le stesse parole, “I can’t breathe”, per 11 volte, rivolto al poliziotto che gli stava stringendo il collo, prima di morire anche lui soffocato. E l’elenco potrebbe continuare, con una caratteristica che si ripete pressoché costante, tanto da poter escludere si tratti di una coincidenza: le vittime sono quasi sempre afroamericani.

Anzi, negri. Una parola brutale, ma che è necessario usare senza ipocrisia, per evidenziare che questi omicidi, perché di questo si tratta, hanno una forte componente razzista. Un problema serio, quello del razzismo, col quale gli USA non hanno mai veramente fatto i conti.

Non bisogna dimenticare, infatti, che la cosiddetta “più grande democrazia del mondo” aveva un regime di apartheid ancora negli anni ’60 del secolo scorso, cento anni dopo la Guerra di Secessione e l’abolizione giuridica della schiavitù. E che il razzismo è tuttora largamente presente nel Paese, con movimenti e rappresentanti ufficiali. Lo stesso presidente in carica Donald Trump ha ottenuto un consenso elettorale unanime fra i cosiddetti “suprematisti bianchi”, convinti assertori della superiorità razziale dei bianchi. E l’attuale inquilino della Casa Bianca non ha mai preso le distanze da questi gruppi, nemmeno in quest’ultima circostanza.

Altra questione aperta, quella della brutalità di molti, troppi uomini in divisa. È evidente che un numero significativo di individui si arruola nei corpi di sicurezza per poter dare sfogo alla propria indole violenta e alle proprie frustrazioni, sapendo di godere di una sorta di immunità, garantita dall’uniforme, dal distintivo e a volte da un malinteso spirito di corpo che sconfina nell’omertà. Non è un problema circoscritto agli USA, purtroppo: anche in Italia abbiamo assistito a episodi brutali nei confronti di singoli o di un’intera collettività, come nel caso dell’assalto alla scuola Diaz di Genova nei convulsi giorni del G8, nel 2001. La spinta ad agire in maniera aggressiva deriva dalla consapevolezza che quasi mai si viene inquisiti o tantomeno condannati per azioni violente che, se commesse da normali cittadini, verrebbero senz’altro perseguite.

Proprio l’ennesimo episodio di brutalità da parte delle forze di polizia USA ha scatenato le proteste, innescate dalla diffusione su internet del video che documentava la tragica fine di Floyd. Dapprima si è trattato di manifestazioni pacifiche, ma ben presto la situazione è degenerata nella violenza. Sono le conseguenze di una tensione che non nasce solo dalla questione razziale, ma più in generale da un disagio sociale crescente, dovuto al costante e progressivo impoverimento di quella middle class che per lungo tempo è stata la base della società nordamericana e che oggi vede il proprio benessere e il proprio stile di vita a rischio. Intendiamoci, non è la prima volta che negli States si vedono rivolte di massa diffuse e per vari giorni di fila. Ma le circostanze attuali sono diverse per due motivi rilevanti.

Il primo è che tutto ciò sta avvenendo durante una pandemia catastrofica, che finora ha già provocato oltre un milione di contagi e più di centomila vittime. Ciononostante, la gente non è chiusa in casa per proteggersi dal virus, ma in strada a protestare e saccheggiare. Perché negli USA, a tutti i livelli e da sempre, la preoccupazione economica è più forte di quella sanitaria. E questa epidemia ha messo in seria crisi l’economia, come mai prima d’ora, nemmeno dopo la tragedia dell’11 Settembre o la crisi finanziaria del 2008. In poco più di due mesi, 40 milioni di americani hanno perso il lavoro e chiesto aiuto alla previdenza sociale, un lavoratore su 4 ha perso l’impiego, con un aumento della disoccupazione esponenziale. In uno scenario così, la morte assurda di un nero per colpa di un poliziotto cinico e brutale ha innescato l’esplosione di una rabbia sociale latente, che covava da tempo.

A fronte di questa situazione, il presidente Trump ha esortato a usare il pugno duro, anche a sparare ai rivoltosi in caso di saccheggi. Ha accusato le autorità locali – sindaci e governatori delle località dove sono scoppiate le proteste – di non essere abbastanza decisi, ha schierato la Guardia nazionale, minacciato di mandare l’esercito. È questa la seconda, fondamentale, differenza. In passato, in circostanze analoghe, il presidente parlava alla nazione cercando di placare gli animi e ristabilire l’ordine, perché rappresentava tutti i cittadini, o almeno cercava di farlo.

Oggi no. Oggi Trump, il presidente più divisivo e conflittuale della storia statunitense, è schierato solo da una parte, quella più biecamente reazionaria dei WASP, White Anglo-Saxon Protestant, che si ritengono unici depositari dell’ideale di vita “americano”.

In questo senso, il ginocchio del poliziotto bianco che schiaccia a terra un nero inerme fino a soffocarlo, è la perfetta metafora dell’attuale situazione statunitense, divisa fra bianchi e negri, ma ancor più fra ricchi e poveri, i primi sempre più ricchi, i secondi spesso ex appartenenti alla classe media. Un Paese che si sente soffocare da un declino palpabile, fuori e dentro i propri confini. La leadership mondiale incontrastata di cui gli USA hanno goduto per quasi trent’anni dopo il crollo dell’URSS è oggi messa in discussione dalla Cina, potenza in dirompente crescita e costante espansione. Gli Stati Uniti subivano già una progressiva riduzione del proprio peso strategico, politico ed economico, e la presidenza Trump, tanto muscolare quanto inefficace, non ha fatto altro che accelerare questo processo.

Questo declino macroeconomico ha naturalmente ripercussioni interne: nel momento in cui la torta diventa più piccola, si riduce la dimensione delle fette che spetterebbero ad ognuno. Se poi qualcuno pretende di non intaccare minimamente la propria fetta, anche se enormemente più grande di quella degli altri, allora fatalmente qualcun altro rischia di restare senza. E allora ecco che gli Stati Uniti di Trump si trovano a lottare su un doppio fronte: all’esterno, cercando di contrastare l’ascesa della Cina con dazi, minacce e sanzioni, strategia per ora poco efficace se non controproducente; all’interno, contro il crescente malcontento sociale dovuto al deterioramento delle condizioni socio-economiche, dando via libera a politiche repressive nei confronti di chi lotta per conquistare o mantenere la sua fetta di “sogno americano”.

Il tutto a pochi mesi dalle elezioni, alle quali Trump contava di presentarsi forte dei risultati economici finora ottenuti dal proprio governo,che ora sono sfumati nel giro di poche settimane, per cui al presidente sembra non rimanere altra strategia che mantenere il consenso della parte più reazionaria del suo elettorato con politiche sempre più aggressive sia fuori, sia dentro i confini nazionali.

Naturalmente, ci sarebbe una soluzione più giusta, più equa, persino più semplice, che permetterebbe di mantenere la pace sociale e far vivere tutti più sereni. Basterebbe applicare delle politiche che consentano una distribuzione più equilibrata della ricchezza, evitando accumuli smodati a fronte di sacche di povertà. Ma questo negli States non lo vogliono nemmeno ipotizzare, perché puzza di comunismo e socialismo. E del resto, pare che nemmeno altrove questa alternativa venga presa seriamente in considerazione.

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