10 giugno 1940: l’Italia entra in guerra

Il 10 giugno 1940, quando entrammo in guerra, era un lunedì. Il giorno prima, ultima domenica di pace per i successivi cinque anni, si era chiuso il giro d’Italia. Vincitore un ventenne al debutto, che sarebbe diventato il campionissimo del nostro del ciclismo: Fausto Coppi. Genoa e Fiorentina superando rispettivamente Bari e Juventus si sarebbero giocate di lì a poco la finale di coppa Italia. Sui giornali campeggiavano, a caratteri cubitali, i titoli sulla straordinaria avanzata tedesca che, dopo aver scavalcato le Ardenne, ormai era diretta verso Parigi. In meno di due mesi, sotto i colpi di maglio della Wehrmacht, erano cadute Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e adesso era il turno della Francia. Poi sarebbe toccato all’Inghilterra.

In queste condizioni, con la vittoria tedesca data per certa un po’ da tutti, l’Italia decise di entrare in guerra. Mussolini sapeva bene che non eravamo in grado di reggere un conflitto lungo e sperava che tutto si risolvesse in poche settimane. Temeva di arrivare tardi alla spartizione del bottino e non era il solo a pensarla così. Certo, in anni successivi farà un gran comodo riversare ogni responsabilità unicamente sul Duce, eppure anche il Re, a quel punto, vedeva di buon occhio un intervento avendo nel mirino qualche conquista territoriale e così la grande industria allettata dall’apertura di nuovi mercati. Soltanto la Chiesa, come già nel 1915, era apertamente contraria all’impresa bellica. Nei più anziani che avevano combattuto nella Grande guerra contro gli austro-tedeschi emergeva poi un malcelato scetticismo verso l’alleanza con la Germania. Circolava persino, naturalmente a mezza voce, una battuta per la quale alleandoci con Hitler, saremmo stati perdenti in caso di sconfitta e perduti in caso di vittoria.

In verità, al di là della retorica ufficiale, non si capiva neppure con esattezza quali fossero i nostri obiettivi bellici. Nella Prima guerra mondiale tutto era più semplice: puntavamo su Trento e Trieste: obiettivi chiari e comprensibili, terre italiane che era naturale ricongiungere alla madre patria, completandone l’unità nazionale. Ma nell’estate del ’40 cosa c’era realmente in ballo? Si parlava di Nizza, di Tunisi e della Corsica da strappare alla Francia. Magari di Malta, spina nel fianco tra la Libia e la Sicilia. Non c’era però una strategia ben precisa, tanto che per molte settimane le nostre truppe rimasero ferme. Si immaginava che tutto ci sarebbe piovuto addosso nella scia della vittoria tedesca. Ecco perchè dovevamo essere presenti e scendere in campo.

E così nel pomeriggio del 10 giugno dal balcone di palazzo Venezia scoccò l’ora segnata dal destino, quella delle “decisioni irrevocabili” e fu guerra contro la Francia e la Gran Bretagna le due demoplutocrazie occidentali considerate nemiche del nostro Paese. La folla applaudì ma senza l’entusiasmo di quando, nel maggio 1936, venne proclamato l’impero. C’era piuttosto una vaga inquietudine e la speranza che tutto finisse presto. La guerra invece non era uno scherzo e lo si capì già il giorno dopo.

La sera dell’11 giugno, Torino, città più vicina ai confini, fu bombardata da aerei inglesi che nella zona di porta Palazzo provocarono decine di morti e feriti e ci fornirono, soprattutto, la sensazione di essere estremamente vulnerabili. Proprio quello che voleva il premier britannico Winston Churchill: un’azione immediata per colpire, sin da subito, il morale della nostra popolazione, ben sapendo che l’Italia era l’anello debole dell’Asse.

E che in questa guerra tutto stava andando in maniera distorta lo si comprese ancora meglio già venti giorni dopo. In Nord Africa, il 28 giugno, venne abbattuto l‘aereo di Italo Balbo, in ricognizione sul fronte egiziano. L’ex quadrumviro della Marcia su Roma, in quel momento governatore della Libia e dunque al comando delle forze militari della regione, era stato il solo gerarca ad aver espresso, nel Gran Consiglio, la propria contrarietà alle leggi razziali e mai aveva digerito l’alleanza con la Germania nazista. Quando il suo aereo fu colpito qualcuno avanzò addirittura il sospetto che Mussolini avesse voluto sbarazzarsi di uno scomodo rivale. Il solo che avrebbe potuto tenergli testa. Come spesso accade, con le dietrologie di ogni risma, la verità era invece assai più semplice, e in fondo, non meno amara. Il velivolo era finito sotto il fuoco incrociato della nostra contraerea, impegnata sino a poco prima del suo passaggio, nel bloccare un raid inglese. Eravamo solo all’inizio di una guerra sbagliata di cui tutti conosciamo il tragico epilogo.

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