Ungheria, dalla perdita del Regno alla bolla demografica

Poco più di cento anni fa, precisamente il 4 giugno 1920, veniva sottoscritto a Versailles il Trattato di Trianon, con il quale le potenze uscite vincitrici dalla Prima Guerra Mondiale decretavano lo smembramento dell’allora Regno d’Ungheria, pilastro dell’Impero Austro-ungarico degli Asburgo, uscito sconfitto dal lungo e sanguinoso conflitto.

Al tavolo sedevano come vincitori Gran Bretagna, Francia, Italia e Stati Uniti insieme ai loro alleati: Romania, Cecoslovacchia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, in seguito divenuto Jugoslavia. Dall’altro lato, lo sconfitto Regno d’Ungheria, penalizzato da un trattato senza trattativa, tanto da essere ritenuto fin da subito un’emanazione unilaterale dei vincitori, talmente ingiusto che persino un generale francese, Ferdinand Foch, affermò “Questa non è la pace, ma solo un armistizio per venti anni”, previsione perfettamente azzeccata per tempi ed eventi successivi.

In pratica,  l’Ungheria si trovò a perdere metà del suo territorio -e tutta la popolazione ivi residente- a favore degli stati confinanti, che attualmente risultano essere la Romania, la Repubblica ceca e la Slovacchia (ex Cecoslovacchia) nonché Serbia, Croazia e Slovenia (ex Jugoslavia) . Conseguentemente, quasi tre milioni di ungheresi si ritrovarono stranieri in casa propria, ridotti a essere minoranza nei nuovi Stati di appartenenza, gli stessi che li avevano sconfitti nella guerra combattuta pochi anni prima. Una situazione certamente poco invidiabile.

Questa ingiustizia storica, a oltre un secolo di distanza, torna a pesare oggi, nel momento in cui l’Ungheria scivola, o per meglio dire precipita nuovamente verso l’assolutismo, sotto la guida del leader ultranazionalista Viktor Orbán, che ha di fatto esautorato il Parlamento e guida il Paese come se fosse un monarca. Il tema delle minoranze oltre confine, così come quello della perduta grandezza dell’epoca imperiale, sono pretesti ideali per gonfiare le pulsioni nazionaliste e scioviniste, aumentando le tensioni interetniche e la conflittualità con gli Stati vicini.

Creare nemici è, in effetti, un modus operandi piuttosto consueto per chi come Orban sta trasformando la propria nazione in un regime, ma alle motivazioni politiche e propagandistiche si affianca una questione tutt’altro che secondaria, che vale la pena analizzare perché, anche se attualmente è limitata all’area balcanica, potrebbe in prospettiva interessare a vari livelli tutto l’Occidente: la crisi demografica.

Una metafora azzeccata dice che sullo stesso orologio la politica guarda la lancetta dei secondi, l’economia quella dei minuti e la demografia quella delle ore. Si potrebbe dire che nella realtà queste unità di misura diventano rispettivamente la visione di breve periodo dettata dalla prossima scadenza elettorale, la programmazione economica e imprenditoriale sul medio periodo e il susseguirsi delle generazioni sul lungo periodo. In effetti, i cambiamenti demografici avvengono generalmente con tempistiche diluite su anni o addirittura decenni, per cui non vengono osservati con la dovuta attenzione dalla classe dirigente e dai decisori politici, ma alla fine si concretizzano con tutto il peso sedimentato negli anni.

Per capirci, all’epoca del baby boom, a cavallo fra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, l’Italia era una nazione giovane e in piena espansione, ma oggi che proprio quella generazione si sta avvicinando alla pensione, ci accorgiamo di essere un Paese che invecchia e non ha sufficiente ricambio generazionale per garantire non solo la sostenibilità del sistema pensionistico, ma soprattutto quella del sistema-Paese.

Le dinamiche demografiche all’opera nei Balcani si ritrovano anche in molti Paesi occidentali, una su tutte il calo della fertilità, o perlomeno del tasso riproduttivo delle coppie. Ma qui il fenomeno è esacerbato da fattori peculiari che in un futuro prossimo potrebbero determinare un livello di spopolamento tale da compromettere gli assetti socio – economici della regione. Oltre al già citato calo del tasso di riproduzione, che spesso accompagna la crescita economica ed è indice di maggiore emancipazione femminile, vediamo anche un progressivo invecchiamento della popolazione, determinato dall’aumento della longevità, a sua volta legato al miglioramento della situazione socio – sanitaria,  altro fattore in comune con l’Occidente.

Ma l’area balcanica presenta anche forti dinamiche migratorie piuttosto differenti rispetto alle economie mature. L’emigrazione continua a ritmi sostenuti – anche se non paragonabili a quelli degli anni ’90 – e vede naturalmente come protagonisti i giovani, fenomeno che assottiglia ulteriormente la base di una piramide demografica già erosa dalla minore natalità.  All’opposto, si registra una forte immigrazione, quella della cosiddetta “rotta balcanica”, appunto. Ma si tratta di un flusso generalmente di passaggio, diretto verso l’Europa occidentale, considerata più ricca di opportunità  e, nonostante tutto, più accogliente. I Paesi slavi infatti sono estremamente refrattari all’accoglienza di migranti, come vediamo sia nei confronti di quelli che attraversano i loro territori, sia di quelli che arrivano dalla rotta mediterranea, della cui redistribuzione continuano a rifiutare di farsi carico.

Un grave errore, quello di rifiutare l’apporto di immigrati per riequilibrare lo scompenso demografico, che pone l’area balcanica nell’inedita situazione di subire contemporaneamente problematiche peculiari dei Paesi poveri – in particolare l’emigrazione giovanile –  e dei Paesi ricchi – calo delle nascite e invecchiamento della popolazione – il che determina una situazione da “bomba demografica a orologeria” che rischia di esplodere fra pochi anni, se non si cambiano le politiche dell’accoglienza e dell’occupazione giovanile.

Questa tendenza si è innescata, come ovvio, a partire dal crollo dei regimi comunisti e dalla consistente ondata migratoria verso l’Occidente che ne è conseguita, per cui è senz’altro caratteristica dell’Europa dell’Est, ma ciò non significa che le nostre “democrazie evolute” debbano ritenersi immuni da un simile rischio.

Tanto per dire, l’Italia conosce da anni quel fenomeno emigratorio noto come “cervelli in fuga”, che  riguarda proprio la porzione più qualificata della popolazione giovanile. È però meno noto che i numeri di questa “meglio gioventù”, costretta a emigrare perché non trova sbocchi qualificati in patria, sono ormai superiori rispetto a quelli dei migranti in arrivo, in genere altrettanto giovani, ma assai meno qualificati.

Ne consegue che anche l’Italia comincia ad avere notevoli squilibri demografici, come ci ricordano le vicissitudini del nostro sistema pensionistico, o del nostro sistema sanitario, costretto ad assistere un numero di anziani in costante crescita a fronte di tagli di fondi, organici e strutture. Una situazione che, in occasione dell’emergenza Covid-19, ha palesato l’inadeguatezza e l’insostenibilità di un sistema sanitario pubblico depotenziato da anni di tagli, mentre i nostri giovani dottori e infermieri emigravano.

Se su una situazione critica come è attualmente la nostra dovesse semplicemente innestarsi un regime sovranista e xenofobo come quello di Orban in Ungheria, il cui chiodo fisso fosse semplicemente quello di fermare a ogni costo i flussi migratori in entrata, ecco che allora potremmo rischiare di trovarci dentro una crisi demografica non dissimile da quella balcanica, con tutte le nefaste conseguenze del caso.                          

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