Paradosso petrolifero
Per un breve attimo, la crisi pandemica ha provocato un effetto incredibile sul petrolio, la principale materia prima al mondo: la domanda era talmente bassa che qualcuno non lo voleva nemmeno in regalo, anzi occorreva pagare perché qualcuno se lo prendesse. È durato poco, ma abbastanza per far capire come cambierebbero gli equilibri strategici, se imparassimo a utilizzare di più le energie rinnovabili.
Ma cosa era successo?
Il mercato petrolifero era già in tensione da tempo, con l’Arabia Saudita che aveva aumentato la produzione per far calare i prezzi, in modo da mettere fuori mercato la produzione di shale oil statunitense, strategia imitata a seguire dalla Russia.
Questo perché gli USA, da sempre grandi importatori di petrolio nonostante vantino numerosi giacimenti di greggio, avevano “scoperto” una nuova risorsa – lo shale oil, appunto – destinata a ridurre la loro dipendenza dall’estero, aumentando così la propria indipendenza energetica e, conseguentemente, anche il loro peso strategico, già estremamente rilevante. Qualcosa che evidentemente non piaceva ai fornitori abituali degli States, che temevano di perdere fette rilevanti di mercato e un formidabile strumento di pressione su Washington
Occorre precisare che l’estrazione dello shale oil è un procedimento complesso, che prevede la frantumazione di rocce di scisto e l’utilizzo di solventi chimici, quindi con costi elevati sia dal punto di vista estrattivo, sia ambientale. Per questo le organizzazioni ecologiste contestano tale processo, ma nell’ambiente dei petrolieri le preoccupazioni ambientaliste stanno a zero, e si procedeva come se nulla fosse. Tuttavia, proprio i costi elevati costituiscono il tallone di Achille di questa industria, che per essere in guadagno necessita di quotazioni petrolifere almeno superiori ai 40$ al barile.
All’opposto, l’Arabia Saudita non solo detiene le maggiori riserve petrolifere mondiali, ma il suo greggio è anche particolarmente agevole da estrarre, per cui i costi di produzione sono nettamente minori, tanto da rendere remunerative le vendite anche con quotazioni decisamente più basse. Ne consegue che per l’Arabia – e per la Russia – era estremamente vantaggioso aumentare l’offerta a parità di domanda, in modo da fissare il prezzo del barile in quella forbice di valori nella quale loro guadagnavano, mentre i produttori di shale oil erano in perdita.
Su questa strategia di mercato estremamente aggressiva è arrivata a impattare la crisi sanitaria causata dalla pandemia, che ha costretto a bloccare gran parte delle attività per settimane, specialmente in Cina, la fabbrica del mondo. Questa situazione ha provocato un drastico crollo della domanda, mentre la produzione rimaneva pressoché inalterata. L’eccesso di offerta, come ci insegnano le leggi di mercato, ha provocato un ulteriore calo dei prezzi, tale da mettere in discussione anche i guadagni dei sauditi.
A quel punto è partito un negoziato fra i Paesi produttori, riuniti nel cartello noto come OPEC, per diminuire l’estrazione di greggio. Tuttavia la Russia, che è un membro solamente informale del cartello, non aveva intenzione di tagliare la produzione e ha ceduto solo a fronte di un nuovo innalzamento produttivo dell’Arabia, tale da far crollare i prezzi. I Paesi produttori hanno dunque concordato un taglio della produzione di una decina di milioni di barili al giorno, cosa che ha per un attimo stabilizzato il prezzo dell’oro nero.
Ma la caduta della domanda mondiale era tale da richiedere un taglio di produzione doppio, intorno ai venti milioni di barili al giorno. Con industrie, auto e aerei fermi, la domanda è crollata, provocando un enorme eccesso dell’offerta, che non era stata oculatamente ridimensionata. A quel punto, l’unica soluzione è diventata lo stoccaggio, cioè riempire i depositi con il greggio non utilizzato, approfittando magari delle quotazioni estremamente favorevoli. Solo che la capacità di immagazzinamento non è infinita, e se si continua a produrre in assenza di consumi si finisce per saturare i depositi esistenti, mentre è impossibile costruirne di nuovi in tempi brevi.
Si sono così delineati due scenari: per i produttori che avevano la possibilità di stipare il greggio nelle superpetroliere, c’è stato un calo dei prezzi deciso – da 60 a 20 $ al barile in un paio di mesi – ma tutto sommato gestibile, in attesa della ripresa dei consumi; chi invece, come nel caso dei produttori texani, doveva fare affidamento sui silos in terraferma, si è trovato letteralmente a non sapere dove mettere il petrolio. È così che la quotazione del West Texas Intermediate, il petrolio prodotto negli USA, è finito in negativo: meno trenta dollari al barile, ovvero erano i produttori a pagare, purché qualcuno si prendesse il greggio in eccesso. Decisamente un duro colpo per l’industria petrolifera statunitense, in particolare per quella legata al già citato shale oil.
Nel momento in cui il contagio ha iniziato a scendere e le misure di quarantena sono state allentate, consentendo la ripresa produttiva, la domanda è tornata a crescere e la situazione si è lentamente normalizzata, tuttavia resta il fatto che un sistema così massicciamente incentrato su un’unica fonte energetica è per sua natura poco flessibile, poco resiliente, intrinsecamente a rischio. Un fattore al quale in genere non si fa caso, tanto siamo ormai abituati a questo paradigma energetico – economico – produttivo basato in gran parte sul petrolio e sui relativi equilibri, o forse più propriamente squilibri, geostrategici.
Un motivo in più per accelerare la transizione verso le energie rinnovabili, che va a sommarsi all’esigenza imperativa di ridurre le emissioni climalteranti causate dai combustibili fossili, responsabili dell’effetto serra e del surriscaldamento globale, a sua volta causa dei mutamenti climatici in atto, dei quali abbiamo già iniziato a vedere le devastanti conseguenze.
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