Foreste al Macello

È di qualche settimana fa il rapporto di Greenpeace  “Foreste al Macello”, che mette in luce il rapporto tra la carne che viene importata in Europa e Italia dal Sudamerica e la deforestazione in atto in quei territori, in particolare nell’Amazzonia brasiliana.

L’organizzazione ambientalista spiega nel dettaglio come avviene in genere il processo che porta a insediare allevamenti intensivi di bovini nelle zone di foresta disboscata: “La foresta, che appartiene al pubblico demanio, viene distrutta (spesso illegalmente) e trasformata in pascoli da una determinata azienda agricola; tramite un’autodichiarazione, l’azienda agricola iscrive l’area forestale, deforestata e occupata, nel Registro Ambientale Rurale per regolarizzarne la proprietà; dopo un certo periodo di tempo, gli animali che pascolano sull’area deforestata vengono venduti a un’altra azienda agricola che opera in aree non legate a deforestazione; la nuova azienda agricola acquista regolarmente il bestiame e lo vende a un macello o ad aziende di lavorazione della carne; le aziende di lavorazione della carne la rivendono sul mercato nazionale o internazionale; nei nostri fast-food, ristoranti, supermercati arriva, assieme ad altre produzioni, carne prodotta a scapito delle foreste, di cui spesso i rivenditori europei ignorano l’origine”.

Infatti i vari passaggi servono proprio a “confondere le acque”, cioè a nascondere la “reale provenienza della carne, occultando il legame fra produzione della carne e deforestazione”. Per accertare il reale luogo di provenienza occorrerebbe un’indagine approfondita sulla filiera di produzione, cosa che in genere non viene fatta, per cui è possibile che la carne venduta da noi sia “contaminata” dalla deforestazione.

Nel rapporto, asserisce Greenpeace “abbiamo analizzato il caso dell’azienda agricola Paredão, edificata e avviata all’interno del parco statale Ricardo Franco, nello stato del Mato Grosso in Brasile. L’area è classificata come protetta e Paredao è accusata di spostare il bestiame fuori dal parco prima di venderlo, per nascondere il legame delle sue attività con le aree deforestate illegalmente nel Parco. Secondo le nostre indagini, tra aprile 2018 e giugno 2019, l’azienda Paredão ha venduto 4.000 capi di bestiame all’azienda Barra Mansa, che si trova fuori dai confini del Parco. Barra Mansa rifornisce le principali aziende di lavorazione della carne del Brasile: JBS, Minerva e Marfrig, che a loro volta esportano carne in tutto il mondo, Italia inclusa.”

È già di per sé singolare il fatto che si consenta l’insediamento di una simile attività produttiva all’interno di un parco. In questo caso è poi particolarmente grave, visto che l’area protetta, come ci evidenzia la stessa Greenpeace, presenta caratteristiche peculiari di notevole rilievo: “Il parco statale Ricardo Franco, creato nel 1997, copre un’area di 158 mila ettari (una superficie superiore all’estensione della città di Roma) e si trova al confine tra il Brasile (stato del Mato Grosso) e la Bolivia, dove si incontrano l’Amazzonia, il Cerrado, la savana più ricca di biodiversità del Pianeta e il Pantanal, la più grande zona umida del mondo. Si tratta quindi di un’area preziosa, in cui interagiscano specie animali e vegetali uniche, dando origine a una biodiversità ricchissima che include 472 specie di uccelli e numerosi mammiferi in via di estinzione, come il formichiere gigante. Nonostante la sua importanza, il parco non è mai stato adeguatamente protetto e nel corso degli anni il 71 per cento della sua estensione è stato occupato da 137 aziende agricole, interessate a creare pascoli per bestiame destinato al macello, a scapito della foresta.”

Questo disastro ecologico, che va a incidere su uno dei più grandi polmoni verdi del pianeta e su una riserva di biodiversità unica al mondo, avviene con la complicità (inconsapevole?) degli importatori europei, che non si curano particolarmente di capire quale sia la reale provenienza della carne importata dal Sudamerica, nonostante siano ormai numerose le evidenze che dimostrano come troppo spesso la produzione avviene a scapito della foresta. In particolare, Greenpeace stima che: “i consumi nell’Unione europea sono legati al 10 per cento della deforestazione globale, che avviene prevalentemente al di fuori dei confini dell’Ue”.

Il problema è legato principalmente alle aziende importatrici, ma non bisogna dimenticare che “i cittadini europei – ammonisce Greenpeace – rischiano di essere complici inconsapevoli della distruzione di foreste fondamentali per il Pianeta, come l’Amazzonia.” Per tale motivo l’organizzazione ambientalista ha chiesto alla Commissione europea “di presentare rapidamente una normativa che garantisca che carne e altri prodotti, come la soia, l’olio di palma e il cacao, venduti sul mercato europeo, soddisfino rigorosi criteri di sostenibilità e non siano legati alla distruzione o al degrado degli ecosistemi naturali e alle violazioni dei diritti umani”.

È importante sottolineare, infatti, che la deforestazione, oltre a incidere sui meccanismi del riscaldamento globale e contribuire alla perdita della biodiversità, spesso va a colpire le popolazioni indigene, che vedono ridursi i territori e le risorse che permettono loro di vivere da sempre in armonia con l’ambiente che li circonda. Per tale motivo, esorta Greenpeace “multinazionali e governi devono impegnarsi immediatamente ad interrompere le relazioni commerciali con chi distrugge biomi essenziali per le persone e il Pianeta!”.

Un monito rivolto ai vertici, ma che occorre declinare anche a livello di noi cittadini / consumatori. Infatti, occorre sottolineare che, in definitiva, sono le nostre scelte a orientare il mercato: diminuire il consumo di carne – come evidenziato da numerosi studi e rapporti internazionali – è uno dei metodi più efficaci per ridurre il nostro impatto sul pianeta, sia in termini di emissioni nocive, sia per porre un freno alla deforestazione e alla perdita della biodiversità.

Soprattutto, è un modo per tutelare la nostra salute, visto che gran parte delle epidemie degli ultimi anni, compresa l’attuale, devastante Covid-19, appartiene alla categoria delle zoonosi, ovvero malattie di provenienza animale spesso causate dall’insediamento di allevamenti in territori un tempo coperti di vegetazione naturale. È proprio in quei luoghi, infatti, che ci sono le più elevate possibilità di spillover, ovvero il cosiddetto, temutissimo “salto di specie”, quello che porta virus sconosciuti a passare dagli animali selvatici a quelli domestici e da questi all’uomo.

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