Dopo l’accordo europeo, un supplemento di responsabilità per far ripartire il Paese

Con previsioni di un calo del pil per l’anno in corso intorno al 12% a causa del virus, l’Italia si trova ad affrontare uno dei periodi più complicati della sua storia dal dopoguerra. Serve un supplemento di responsabilità da parte di tutti. In particolare serve una classe dirigente che dimostri di essere all’altezza delle sfide, individuando con chiarezza, tempestività e concretezza le priorità per far imboccare al Paese la via dell’uscita da questa crisi. Questo a maggior ragione dopo le conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo che, pur fra tante difficoltà e inevitabili compromessi fra le diverse visioni degli Stati, ha sancito un accordo sui criteri con cui affrontare insieme la grave crisi. Un accordo che sarà tanto più vantaggioso per l’Italia, quanto più questa dimostrerà di saper sfruttare con progetti adeguati a ottemperare ai requisiti richiesti, i finanziamenti europei e le opportunità di ripresa garantite, in ultima istanza, dalla Banca Centrale Europea.

La massima urgenza da affrontare è costituita da ciò che più ha risentito del blocco della maggior parte delle attività economiche causato dall’epidemia, ovverosia la domanda interna. Il cui calo ha effetti strutturali su tutte le dimensioni dell’economia che vengono attirate nel gorgo della deflazione. Se la prima risposta all’eccezionalità della crisi è stata improntata a misure tampone come prestiti e sovvenzioni alle categorie particolarmente danneggiate dal prolungato lockdown e dalle restrizioni, si deve ora pensare a misure strutturali. Ciò che negli anni passati è stato fatto per rivitalizzare il sistema finanziario europeo, va esteso in direzione dello stimolo all’economia reale con adeguate politiche economiche e monetarie, anche non convenzionali. Investimenti per sviluppo, lavoro, infrastrutture, potenziamento delle reti di protezione sociale, tangibile e forte shock fiscale rappresentano interventi ineludibili e urgenti tanto in ambito comunitario che in quello nazionale. Ogni ulteriore indugio su come riattivare il normale ciclo economico potrebbe rivelarsi carico di gravi conseguenze anche di ordine sociale e politico. Fra un anno, se tutto va bene, si potrà utilizzare lo strumento del Recovery Fund, ma nel frattempo occorre preoccuparsi di come la popolazione, specie quella più colpita o addirittura rovinata dalla crisi pandemica, potrà affrontare i prossimi mesi.

Un secondo stimolo alla ripresa è costituito da una riforma della nostra Pubblica Amministrazione, improntata alla responsabilità, all’orientamento complessivo al risultato e in definitiva al servizio dell’intero Paese. Occorre far sentire i vari enti che costituiscono la P.A. come parte di un ingranaggio. Nella gestione di una pratica di competenza di più enti, a volte decine, non è sufficiente che ciascuno faccia la sua parte, ma ciò che conta è il risultato finale, entro precisi limiti di tempo. Responsabilizzare significa rendere la burocrazia legata nel bene e nel male alle conseguenze del proprio operato.

Occorre, nel contempo, riporre più fiducia nei decisori politici, che devono esser liberati dalle ossessioni, imposte dall’alto, di appalti al minimo ribasso e di una concorrenza esasperata, oltre il buon senso, che penalizza le soluzioni a “km zero” e quelle che antepongono la qualità e il rispetto dei diritti dei lavoratori ai meri costi.

In terzo luogo credo si debba porre la massima attenzione al ruolo fondamentale per la ripresa esercitato dai campioni nazionali nei diversi campi: dell’innovazione e della ricerca civile e militare, dell’energia, delle costruzioni e delle grandi opere pubbliche, del credito e della finanza. In ciascuno di questi campi occorre per un Paese come l’Italia saper salvaguardare guida e proprietà nazionali dei gruppi che possono offrire al sistema Paese le loro competenze e contribuire a fare da volano per la ripresa dell’intera economia. Il criterio a cui improntare tali tentativi non può che esser quello di cercare di far collimare il più possibile gli interessi degli azionisti con quelli del Paese, con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, della tutela del lavoro e dell’ambiente in particolare, valorizzando le peculiarità e le forme societarie di quelle aziende con un più marcato radicamento popolare e a maggiore vocazione territoriale.

In tal modo si potrà fare di questa profondissima crisi un’occasione per porre rimedio a decenni di politiche economiche e sociali che non hanno dato i risultati che promettevano sul piano economico, ma neanche su quello sociale, avendo provocato piuttosto un aumento della povertà e delle disuguaglianze verso livelli ormai non più sostenibili. Invece, si può e si deve cercare di riallacciare i fili con quelle lungimiranti scelte di politica economica e di geopolitica che nel secolo scorso hanno fatto risorgere l’Italia dalle macerie, proiettandola nel club delle maggiori potenze economiche. Anche nel nostro secolo può avvenire, se tutti lo vogliamo e ciascuno farà la propria parte.

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