Gli anniversari dimenticati e le nostre speranze
Di molte personalità, italiane e non, quest’anno si ricorda il centenario della loro nascita, ma le loro celebrazioni sono state ridimensionate a causa del virus. Alcune figure sono molto note, altre meno, qui ne possiamo ricordare alcune, rispettandone rigorosamente l’ordine cronologico. A gennaio abbiamo avuto quello del regista Federico Fellini e quello di Chiara Lubich (la fondatrice del Movimento dei Focolari, paradossalmente forse più conosciuta all’estero che in Italia, che qui è stata ricordata lo scorso febbraio). A maggio abbiamo trovato Giovanni Paolo II e a giugno Alberto Sordi. Di agosto era Enzo Biagi e di dicembre Carlo Azeglio Ciampi (Azeglio in memoria di suo nonno, a sua volta così chiamato in onore di Massimo Taparelli D’Azeglio, del quale il presidente divenne poi un estimatore).
Se andiamo indietro di un altro secolo, possiamo ricordare che nel 1820 nacque a Palazzo Carignano, allora dimora della sua famiglia, Vittorio Emanuele di Savoia che, per uno strano gioco dinastico (il ramo principale della casata non aveva più eredi maschi) divenne il primo re d’Italia, aggiungendo il numero “secondo” al suo nome (dell’avo contraddistinto con “primo” abbiamo ormai perso il ricordo, ma non è stata una grave perdita, come vedremo). Del successore, contraddistinto con “terzo”, sarebbe stato meglio che non ci fosse stato, in quanto fu, tra l’altro, colpevole di permettere l’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940 (altro anniversario tondo), senza opporsi (come invece sarebbe stato nelle sue prerogative). Sempre nel 1820 furono anche abbozzati gli ultimi capitoli di un libro assolutamente ignoto a molti, che fu pubblicato (incompiuto) solo giusti cento anni più tardi, nel 1920 appunto. Si tratta della più importante opera politica di un intellettuale sconosciuto (come pensatore e come letterato) che è, al contempo, anche un patriota dimenticato, colui che fu il principale protagonista dei Moti piemontesi del 1821, cioè Santorre di Santa Rosa. L’opera si intitola Delle speranze degli Italiani e meriterebbe di essere letta per l’originalità di tante idee contenute (nonostante il volume sia oggi pressoché introvabile). Purtroppo il fallimento dei Moti e la miopia della classe dirigente sabauda (quella del primo Vittorio Emanuele e del fratello Carlo Felice, detto Carlo “feroce” per come condusse la repressione) costrinsero Santa Rosa all’esilio, tanto da trovare precocemente la morte in Grecia nel 1825, combattendo per l’indipendenza di quella nazione dai Turchi, quindi non poté terminare il suo lavoro. Molto probabilmente fu per rendere omaggio al suo amico scomparso che, nel 1844, Cesare Balbo intitolò, con una voluta similitudine, una sua opera politica Delle speranze d’Italia. Si sperava molto nel XIX secolo, nel nostro paese, in quanto anche Niccolò Tommaseo, nel 1848, scrisse le sue Delle nuove speranze d’Italia, presentimenti di un’opera.
Quindi, se in un’Italia occupata ed effettivamente dipendente dallo straniero, teatro di rivolte, di oppressioni e di guerre, vittima di pestilenze e carestie (come scriveva il patriota poeta Fusinato: “il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca”), si “sperava” molto, anche oggi, nonostante le molte circostanze avverse, nessuno può negarci il diritto alle nostre “speranze”, soprattutto se sapremo ben sfruttare tutti gli strumenti disponibili per uscire dalla crisi, senza pregiudizi ideologici, superficialità, liti ed incompetenze.
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